La tigre bianca, la recensione
Ramin Bahrani cerca con la parabola narrativa del suo film il fascino perturbante di questa relazione di potere e dipendenza: tuttavia non fa che esporre questa intenzione a parole, continuamente, asfissiando totalmente la trama
Scritto e diretto da Ramin Bahrani, La tigre bianca è, tuttavia, succube della sua stessa forma. Il film parte con la dichiarata intenzione di raccontare la verità sull’India attraverso la storia di un uomo qualunque: una parabola, dunque, attraverso cui raccontare la malata e millenaria relazione di dipendenza che intercorre tra il servo e il suo padrone (non proprio un’affare da poco), prendendo come esempio il rapporto che intercorre tra Balram e Ashok (interpretato dal famoso attore indiano Rajkummar Rao), un ricco che corrompe i politici per non pagare le tasse. La famiglia di Ashok cerca continuamente di salvarsi la pelle a spese di Balram, con una schizofrenia inspiegabile nel modo in cui prima lo odia, poi lo ama, poi se ne frega altamente. Ramin Bahrani cerca con la parabola narrativa del suo film il fascino perturbante di questa relazione di potere e dipendenza: tuttavia non fa che esporre questa intenzione a parole, continuamente, asfissiando totalmente la trama. Un luogo, la trama, dove invece risiederebbe la forza metaforica tanto agognata.
Dimenticata la voce narrante, se si segue soltanto l’ascesa di Balram non si ha nemmeno la soddisfazione sul piano dell’intrattenimento narrativo. Si ha infatti sempre la sensazione che il film stia per esplodere, che finalmente si sta arrivando l’azione… e poi non succede mai. Si mette un sacco di carne al fuoco, si aprono continui scenari possibilmente interessanti e non se ne percorre nemmeno uno, frustrando continuamente le aspettative dello spettatore.