La terra dei figli, la recensione

La razza umana non ha più voglia di vivere e nel cupio dissolvi dell'umanità che mostra La terra dei figli qualcosa dentro il protagonista non vuole morire

Critico e giornalista cinematografico


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La terra dei figli, la recensione

Erano letteralmente decenni che non usciva un film come La terra dei figli, un postapocalittico che fa tantissimo con poco, ambientato alla fine del mondo che in realtà sembra il delta del Po. Inedita fantascienza pauperista da nord est italiano. Erano anni che non si vedeva un film italiano capace di creare un mondo di fantasia con la coerenza visiva e la capacità di trasformare posti reali in luoghi fantastici come nei film di Matteo Garrone. Erano anni che dei mille tentativi annui italiani di realizzare un cinema di genere con finalità autoriali e intellettuali ne riuscisse almeno uno.

Invece ora La terra dei figli, adattando la graphic novel di Gipi (i cambiamenti ci sono ma non sono tanti, è più che altro una riduzione per far entrare tutto in un film), crea il massimo lavorando sull’assenza di dettagli ed elementi. Addirittura, in controtendenza totale rispetto a tutto il cinema di genere italiano moderno, invece di peggiorare a mano a mano che avanza non fa che migliorare.

La storia è quella di un padre e di un figlio ancora vivi quando tutto pare morto. C’è stata una guerra terribile e ci sono stati i veleni che hanno ucciso il resto. I pochi superstiti vivono in queste zone paludose da Louisiana che invece sono l’Italia. L’umanità è allo stato brado, incattivita e, cosa più interessante di tutte, depressa. Delle mille apocalissi che abbiamo visto questa è l’unica in cui è tangibile l’idea che la razza si stia avviando ad un cupio dissolvi, l’unica in cui nessuno ha interesse a fare figli e molti hanno soppresso quelli che erano nati per non farli vivere in quelle condizioni. Il protagonista non è stato ucciso dal padre che però a sua volta muore dopo poco, lasciandolo solo e analfabeta. È stato cresciuto con cattiveria e durezza, non ha mai conosciuto il mondo com’era prima. Ha solo un taccuino con le parole del padre e si avventura nel mondo esterno, in cui non era mai andato, alla ricerca di qualcuno che glielo legga.

Impossibile non pensare ad Anna, l’altro (particolare) postapocalittico italiano uscito quest’anno e al suo taccuino. E un po’ fa ridere che, pure dopo le apocalissi, in Italia la cosa più importante rimangano le lettere.

La struttura qui è semplice: un viaggio e una serie di incontri, un road movie da motoscafetto, di chiatta in chiatta, di stabilimento abbandonato in stabilimento abbandonato. Come nel cinema italiano migliore, mentre il viaggio distrae il vero lavoro avviene sullo sfondo e sui comprimari. Claudio Cupellini, Filippo Gravino e Guido Iuculano li caratterizzano benissimo, lasciando nell’ombra il protagonista, inconoscibile fino alla fine. Ognuno ha pochi minuti sullo schermo ma è memorabile proprio perché non sono archetipi, alle volte sono personaggi unici, altre si ispirano soltanto agli archetipi per costruire altro. Su tutti spicca un incredibile Valerio Mastandrea, attore resuscitato, che recita con corde mai sentite senza imitare nessuno. Ha un personaggio duro che lui rende il più difficile. Eccezionale in un ruolo piccolo che concentra in sé tutta la tristezza del mondo, lavorando più che altro sul tono di voce. Mutilato nel corpo e dentro, capace di raccontare con quella voce di sofferenze lontane, remote e profonde.

E per quanto La terra dei figli, come spesso ci capita, abbia un inspiegabile terrore sacro della violenza e non faccia che scappare fastidiosamente ogni volta che si presenta (allarga le inquadrature, esce fuori e fa sentire i rumori, inquadra la porzione meno violenta dell’immagine), dimostrando che non siamo ancora maturi per un rapporto sano con la violenza simulata (e lo stesso avviene con la violenza psicologica, che c'è ma è raccontata più che vissuta), lo stesso il suo universo ha la cattiveria giusta perché il racconto sia coerente. È stupefacente come riesca perfettamente la parte più difficile di tutte, ovvero centrare il tono giusto e gestire un ritmo costante, nonostante momenti più o meno densi di eventi. Il film non cambia mai passo e così facendo ribadisce di continuo la futilità di quella vita.

Tutto in La terra dei figli sembra finalizzato al racconto di sentimenti imprigionati e maltrattati da un mondo cattivo, la cui esplosione finale, una volta tanto, è stupenda e commovente. Per Cupellini (e per Gipi) anche nella più nera delle realtà c’è comunque qualcosa dentro gli uomini che non muore mai, può solo repressa.

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Disclaimer: uno dei critici di BadTaste, Francesco Alò, è tra i direttori artistici del festival di Taormina in cui è stato presentato il film oggetto di questa recensione, La terra dei figli

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