La recensione di La stranezza, il film di Roberto Andò nelle sale dal 27 ottobre
La tradizione dei delicati affreschi storici italiani, l’ecumenica celebrazione del genio artistico sporcato di leggerezza per fregiarsi di crediti popolari tali solo su carta, la sistematica divisione di ruoli, parti, scene e personaggi in seri e faceti. Ci sono film la cui stessa esistenza è giustificata dalla soddisfazione dell’apparato produttivo e creativo da cui sono originati: mostrine da vantare, pacche sulle spalle garantite. Chi lo sa, magari è il caso di
La stranezza, operazione di grande spolvero della cultura italiana e rilancio dell’identità nazionale a mezzo (Rai) cinema che, raccontando lo snodo cruciale nella produzione di
Luigi Pirandello, mette in scena nozioni scolastiche. Prolungamento (ma più probabilmente anticipazione) su schermo dei discorsi del cinema nelle scuole che suonano sempre come cinema delle scuole.
Senza girarci troppo intorno La stranezza è un film senza qualità dotato di un’idea di intrattenimento vecchissima, una che separa rigidamente i livelli di lettura e che non sa ridere (o anche solo sorridere) del contesto e delle figure ritratte ma gli affianca dei personaggi-macchietta, i buffoni che saltellano intorno al mostro sacro. Questo è il cinema delle scuole: quello che non si azzarda a toccare ciò che mette in scena, che non lo mette in discussione, che non lo contamina, rivede e ripensa, semmai lo racconta con dovizia di date, dettagli e realtà storica come un buon manuale. Un cinema innocuo, gentile e celebrativo che non ha un punto di vista personale, non ha un’idea di mondo di cinema stesso dentro di sé, ha solo trucchi di sceneggiatura per dare mordente ad una pagina di sussidiario.
Non poteva mancare
Toni Servillo, impegnatissimo a recitare il ragionamento, la mente affilata e geniale dell’artista che registra, elabora e tramite tormenti personali trasforma in arte ciò che vive e lo circonda. Niente di nuovo. A deludere semmai è l’uso povero di
Ficarra e Picone, chiamati a fare commedia leggera e rinunciare al loro tono comico. Lo stesso tono che,
nei loro momenti migliori, contiene molta più cinica profondità intellettuale e senso della sovversione di quanto non si trovi qui, con la sordina, sotto una metaforica egida di
Servillo/Pirandello, nume che benedice tutta l’operazione con il nome suo e del suo personaggio, così sovrapposti che non si sa dove finisca l’allure del primo e inizi quello del secondo.