La stanza, la recensione

Le ambizioni ci sono anche in La stanza ma una buona regia non è mai supportata da una scrittura all'altezza di quegli obiettivi

Critico e giornalista cinematografico


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Molto spesso l’impressione nel vedere film italiani d’orrore, suspense e tensione è di essere fermi ad altre epoche. Alcuni sono fermi al giallo argentiano (non lo attualizzano, proprio lo imitano senza cambiare molto), altri sono fermi a Una pura formalità e a quell’idea di racconto di tensione di stampo letterario che viene messo in scena con una passione inspiegabile per le soluzioni teatrali. Questo è La stanza, che dopo un ottimo inizio visivamente accattivante e pieno di personalità, si scioglie tirando molto molto a lungo le sue rivelazioni e cercando poi colpi di scena che non funzionano più, per diventare infine uno slasher quando è davvero troppo tardi.

Eppure l’ingresso in scena di Camilla Filippi con abito da sposa, su un cornicione, durante una terribile giornata di pioggia che le spande il trucco, è ottima. E anche quello di Guido Caprino, accompagnato dal rombo di un fulmine senza che suoni troppo kitsch, sembra annunciare il meglio. Il problema di La stanza infatti non è mai la regia, ma la scrittura (del regista Stefano Lodovichi, Filippo Gili e Francesco Agostini). Sia arco narrativo e (maldestri e scomposti) che soprattutto i dialoghi pigrissimi e calcati sulle solite frasi, solite parole e solite espressioni, creano una valanga di problemi dalla poca plausibilità all’incedere prolisso fino proprio alla fatica per gli attori anche impeccabili (c’è Edoardo Pesce) di recitare quelle parole.

In questo modo anche il buon tono che l’inizio sembra promettere si esaurisce in fretta e ci mettiamo moltissimo a capire di cosa parli questa storia. Un tempo che non è mai riempito di eventi o almeno tensione, lo scopriamo senza che il lento svelamento sia un piacere e senza che sia alimentato dalla suspense. Un uomo arriva in una specie di locanda/hotel/BnB proprio mentre la proprietaria si sta per suicidare, lui impone la sua presenza e cerca di socializzare. Quali siano i problemi è un mistero ma è chiaro che nella casa c’è anche un figlio, non proprio piccolo, che passa le giornata chiuso nella sua stanza. Chiuderà il cast il marito e padre (quando arriverà). Cosa leghi i personaggi e motivi il nuovo arrivato è il punto di tutto. Ci arriveremo tardissimo ma soprattutto una volta spiattellato (rigorosamente a parole!) sarà tutto così assurdo e fuori dal genere che fino a quel momento La stanza aveva proposto da suonare fuori posto. In parole povere gli sceneggiatori non riescono a costruire la credibilità di quella svolta, che invece visivamente forse poteva reggere.

Con pseudo-psicologia a pacchi proposta in lunghi monologhi che spiegano tutto, intervallati da pianti di Camilla Filippi, La stanza quasi da subito non fa che ripetere le medesime dinamiche tra personaggi, con un crescente senso di noia, ripetizione e nessuna evoluzione per lo spettatore che si sente ribadire sempre le medesime questioni.

Difficile, dopo così tanti minuti in compagnia di personaggi che ci hanno spiegato tutto di sé e non hanno fatto che ripeterlo e ripeterlo, avere un po’ di empatia verso di loro quando il gran finale introdurrà un po’ di azione e tirerà le somme.

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