La stanza degli omicidi, la recensione

Invece che raccontare di criminali che si fingono artisti, La stanza degli omicidi racconta di una gallerista che espone opere di un criminale

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di La stanza degli omicidi, in uscita in sala il 6 giugno

Non c’è niente di particolarmente attraente in un film d’azione e crimine, anche ironico, in cui i mafiosi si fingono artisti e riciclano il denaro attraverso una galleria d’arte moderna. Ma c’è tutto di interessante in un film sull’arte moderna in cui una gallerista disperata accetta di riciclare il denaro di un gruppo di criminali, fingendo di vendere le croste fatte a caso da uno di loro solo per quello scopo, uno in cui il solo fatto che questi vengano venduti a caro prezzo (nessuno sa nemmeno a chi, perché per l’appunto il crimine vuole tenere un profilo basso) trasforma quell’assassino in artista riconosciuto, cercato e valutato. Solo ribaltare il punto di vista della storia crea un film sorprendente, dalla scrittura perfetta e il divertimento serio.

Più che il mondo dei criminali infatti seguiamo quello dell’arte, per prenderne in giro il legame stretto con il denaro e scarso con l’arte, ma poi (e questa è la vera forza del film) trovando anche una maniera di fare un ragionamento veramente complicato su cosa sia l’espressione artistica. I quadri e poi le sculture di questo sicario che non crea a caso ma usa gli strumenti del lavoro nelle sue opere, esprimono in maniera naïve il suo mondo e le sue intenzioni. Anche se nessuno lo vorrebbe. Quei quadri inizialmente desiderati da tutti solo perché c’è qualcun altro che li paga molto, cominciano ad avere un effetto sulle persone. Prima sono eccitate sessualmente da questi lavori, eccitati sia dal sapore di violenza che hanno, sia dal fatto che sono costosi, cioè arrapate dal valore economico; poi le opere diventano sempre meno casuali e a mano a mano che la verità esce fuori sempre più piene di un senso profondo.

Anche noi, che inizialmente ridiamo (e giustamente) di tutto questo, finiamo a capire che il solo realizzare delle opere, cioè la sola operazione di creare qualcosa e poi vedere l’impatto che ha sulle persone, possa cambiare una persona e risvegliare in lui qualcosa. Un produttore, Jonathan Jacobson, è lo sceneggiatore, mentre la regia blandissima è di Nicol Paone (prima di ora al lavoro su pessime commedie), ma La stanza degli omicidi è un film in cui tutti gli attori credono. E fanno bene. Sia Samuel L. Jackson comprimario, che i protagonisti Uma Thurman (straordinaria, piena di furia, desiderio e potenza) e Joe Manganiello, che Maya Hawke (figlia di Uma Thurman) in un piccoloruolo.

Incrociando di continuo metodi e sistemi del mondo mafioso e del mondo dell’arte moderna (incredibile quanto facilmente si sovrappongano), La stanza degli omicidi riesce stranamente a parlare davvero senza pregiudizi di cosa sia l’arte, senza nessuna soggezione ma anzi affermando che questa si trova ovunque, che non necessita di essere clamorosa ma è solo una maniera per esprimersi che può essere alla portata di tanti. E come avviene per i film migliori non lo vuole dire, lo vuole far provare alla platea di spettatori più larga possibile. Alla fine infatti, una risoluzione molto convenzionale per una commedia, ma ben scritta, con un grande intreccio che si scioglie attraverso un piano inesorabile per battere i cattivi e far vincere i buoni, suona un po’ forzata ma va bene. Sono queste convenzioni che, in un film di questo tipo, tengono i piedi per terra al tutto, gli impediscono di avanzare pretese di avanguardia e ricordano il ruolo e la natura commerciale dell’operazione.

Che in questo caso sono la sua forza.

Seguiteci su TikTok!

Continua a leggere su BadTaste