La stanza accanto, la recensione: una grande Swinton per un Almodóvar che fa i conti con la morte

La recensione di La stanza accanto, l'ultimo film di Pedro Almodóvar presentato al Festival di Venezia

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Ingrid (Julianne Moore) è una scrittrice terrorizzata dalla morte. Un giorno la sua amica Martha (Tilda Swinton) reporter di guerra malata di cancro, le chiede la cosa più difficile: stare con lei nella casa che ha affittato per morire, nella "stanza accanto". The Room Next Door - esordio americano di Pedro Almodóvar - è in realtà pieno di altre storie, diversioni, racconti nel racconto. Ma sono parentesi (per quanto importanti) di un film che è fondamentalmente un dialogo ininterrotto fra due grandi attrici. Un film dove "succede" pochissimo, quasi sempre in flashback o aneddoti. E il 90% del tempo lo passiamo ad ascoltare i dialoghi tra Ingrid e Martha, mentre si spostano tra i loro appartamenti newyorkesi e la destinazione finale di quest'ultima.

The Room Next Door non appare mai però come un film statico. Se lo svolgimento ha un che di teatrale (facilissimo immaginarselo trasposto in palcoscenico) Almodóvar sa da sempre come parlare con la messa in scena, e qui lo fa in modo più essenziale che altrove. Non più narratore (all'incirca) classico come nel suo periodo maturo, ma neanche inventore pazzo come agli esordi, in questo film lascia che il fulcro siano dialoghi e interpreti. Ma non per questo si accontenta di riprenderli: Moore e Swinton (raggiunte a un certo punto da John Turturro) conversano in cornici che sono piccole perle di interior e costume design, dove la tavolozza cromatica e l'approccio pittorico fanno quanto se non più della sceneggiatura nell'esprimere le emozioni delle protagoniste.

All'interno di questa messa in scena il capolavoro è proprio Tilda Swinton. Attrice il cui volto è un "segno" cinematografico potentissimo, ma che non tutti i registi hanno saputo valorizzare nello stesso modo. Usare Swinton (di per sé così espressiva, così aliena) è stato anzi spesso una scorciatoia, un modo per caricare di suggestione personaggi non sempre particolarmente interessanti. Non è il caso di The Room Next Door: il lavoro di Almodóvar su quel viso, quel corpo emaciato, quegli occhi enormi - impossibile non pensare al David Bowie del funereo Blackstar - è paragonabile a quello di un grande paesaggista; ma uno interiore come il Bergman di Persona, altro film impegnato a disegnare attraverso i primi piani di due donne una personalissima geografia dell'anima.

È un peccato che la capacità di Almodóvar di non adagiarsi sulla presenza scenica di Swinton non trovi corrispondenza in un altro elemento del film: la sua dimensione intertestuale, fatta di citazioni che vanno dalla pittura di Hopper al Joyce di Gente di Dublino (compresa la versione cinematografica di The Dead firmata John Huston). Da buon postmoderno Almódovar ha sempre messo al centro i suoi riferimenti - il melodramma hollywoodiano, Hitchcock, Buñuel. Ma se film come Tutto su mia madre si "guadagnavano" quelle citazioni, The Room Next Door le usa un po' troppo spesso in chiave sostitutiva, come se sentisse il bisogno di appoggiarsi al dipinto o al racconto di qualcun altro per portare avanti il racconto e i sottotesti. C'è un equilibrio tra furto geniale e riproposizione, e a tratti stavolta si pende (un po' pigramente) più verso la seconda.

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