La spada selvaggia di Conan 1 - 2, la recensione
L'azione di La spada selvaggia di Conan esalta un Ron Garney sempre più sintetico ed esplosivo
Fumettallaro dalla nascita, ha perso i capelli ma non la voglia di leggere storie che lo emozionino.
Tra le iniziative più attese nella prima parte del 2019, c’era senza dubbio l’esordio delle nuove serie Marvel dedicate a Conan, il celeberrimo personaggio creato da Robert E. Howard nel 1932, di ritorno dopo una lunga permanenza alla Dark Horse. Sono due le testate Panini Comics che stanno presentando, a cadenza bimestrale, la nuova vita editoriale del personaggio: Conan il barbaro, con le avventure scritte da Jason Aaron (Thor) e disegnate da Mahmud Asrar (Uncanny X-Men), e La spada selvaggia di Conan, su cui possiamo leggere la prima saga tratta da Savage Sword of Conan, firmata da Gerry Duggan (Deadpool) e Ron Garney (Daredevil).
Per la sua serie, Duggan decide di portare in scena un Conan giovane che è espressione di pura brutalità: sin dalle prime battute, lo scrittore di Infinity Wars ci pone di fronte a un guerriero spietato e inarrestabile, una forza della natura guidata da istinti primordiali. Dal carattere spigoloso, poco incline al dialogo e risolutivo, il barbaro emerge in tutta la sua straripante fisicità mentre affronta minacce mistiche.
Abbiamo dunque a che fare con la caratterizzazione selvaggia – è proprio il caso di dirlo – del personaggio che abbiamo ammirato nel racconto La figlia del gigante dei ghiacci, uno spirito indomito che non ha paura di nulla. Poco importa se un mago o un intero esercito incrociano la sua strada: assisteremo a una carneficina al termine della quale un solo guerriero resterà in piedi.
Nei primi tre capitoli della saga, l’azione è indubbiamente la colonna portante di un racconto brillantemente delineato dallo scrittore statunitense. Scoprire l’anima più epica di Duggan è stata una sorpresa: apprezzato per il suo lavoro sulle testate cosmiche della Casa delle Idee o per la lunga run su Deadpool, qui si dimostra un grande conoscitore del personaggio e ci offre una storia rispettosa della tradizione howardiana ma in grado di ampliarne il mito, aggiungendo un nuovo appassionante capitolo a una saga già ricchissima.
Giunti alla metà della miniserie, non possiamo che restare impressionati dalle premesse di La setta di Koga Thun, una storia che tiene testa all’altrettanto convincente titolo di Aaron anche per merito della bella prova di Garney al tavolo da disegno; decisamente più graffiante rispetto ad Asrar, il fumettista americano impressiona per la capacità di rielaborare in maniera personale un’iconografia ben definita nell’immaginario collettivo, portando avanti il lavoro di sintesi tra luci e ombre innescato sulle pagine di Daredevil. Nel cambiare spesso ambientazione, Garney adatta il suo stile alle varie fasi, esaltato dalle splendide colorazioni di Richard Isanove.
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