La sindacalista, la recensione

La sindacalista ha problemi nel mettere in ordine una storia vera che invece lascia a bocca aperta e appassiona solo nel finale

Condividi

La recensione di La sindacalista, film in concorso nella sezione Orizzonti al Festival di Venezia

La sindacalista ha una storia incredibile da raccontare, e purtroppo lo sa. Si affida totalmente alla performance di Isabelle Huppert e al suo personaggio. Sbaglia però la distribuzione di tutti i pesi, andando a uniformare ogni momento di un film che cambia radicalmente faccia dalla metà in poi, senza però trovare una chiave che tenga insieme tutto. Scorre lineare, troppo lineare, perdendo un potenziale emotivo incredibile.

Il 17 dicembre del 2012 Maureen Kearney, la rappresentante sindacale di Areva, gruppo multinazionale francese specializzato nell'energia nucleare, viene trovata legata e seviziata in casa sua. Gli aguzzini le hanno inciso una A sull'addome e le hanno inserito il manico di un coltello nella vagina. Così inizia il film e così iniziò, nella realtà, la sua vicenda legale. Perché la donna fu al centro di una vicenda mediatica e legale intricata, risoltasi solo nel 2018.

Si sospetta infatti che l'aggressione sia la conseguenza di continue minacce ricevute dalla donna, in quel momento al centro della scena politica. Un informatore le aveva passato sottobanco le prove di trattative segrete tra il gruppo francese EDF e la cinese CGNPC. Gli accordi prevedevano il trasferimento di tecnologia e competenze sulla produzione delle centrali nucleari, mettendo a rischio gran parte dei 50.000 posti di lavoro dell'azienda. Una vicenda politica che ha attraversato il governo Sarkozy venendo gestita da quello successivo di Hollande.

Jean-Paul Salomé inizia La sindacalista come se il suo obiettivo principale fosse far conoscere all'opinione pubblica una vicenda passata sotto silenzio in Europa e anche in Francia. La tesi del film è che tutto venne insabbiato per via del processo di contro accusa alla Kearney. Una montatura fatta per screditarla e silenziare le sue accuse. La donna non venne infatti creduta dalla polizia. La pulizia dell'aggressione e alcuni vuoti nella deposizione portarono all'accusa di avere inscenato i fatti per gettare discredito sull'azienda. Da vittima si ritrovò sul banco degli imputati per simulazione di reato. Un processo che le distrusse la carriera e la reputazione.

Con questo materiale, molto difficile da gestire, La sindacalista fa la scelta più televisiva e sicura possibile: lascia parlare i fatti, li espone partendo dalla metà, tornando indietro e infine buttandosi in avanti nel presente. Il tutto regge, ma non eccelle mai. Sono molte le occasioni perse: non viene mai mostrata la pressione dei media, e nemmeno il parere dei dipendenti. Ci viene detto che sono dalla sua parte, ma non lo vediamo mai.

Soprattutto la lettera incisa nella pelle non diventa mai il simbolo che avrebbe potuto essere: quello di un atto di coraggio che diventa cicatrice, segno indelebile nella carne. Sarebbe bastato questo per partire a raccontare la vita di questa donna. Sebbene infatti la corruzione sia una parte importante dell'analisi che la regia vuole fare sulla società francese, il discorso non si eleva mai oltre l'ovvio.

Siamo noi spettatori ad ampliare il discorso, grazie proprio ai fatti pazzeschi che ci vengono raccontati, senza che il film metta mai nulla di suo. Anzi, la Huppert si rinchiude in un personaggio molto confortevole rispetto alla sua produzione, che le dà la possibilità di giganteggiare. Però il contorno non duetta quasi mai con lei. Vediamo solo uomini spietati o acciecati dai pregiudizi e donne solidali o conformate al pensiero della società patriarcale. In una vicenda così intricata, mancano le sfumature, i punti di vista insoliti per renderla indimenticabile.

Dove brilla di più La sindacalista è nella seconda parte, dove trova un suo centro (tardivamente) e inizia a distruggere ogni certezza costruita. Quando finisce la solita narrazione sulla donna forte e sola, si iniziano ad intravedere delle crepe in una narrazione fino a lì troppo impostata. È lì che il film inizia a parlare veramente lasciando tracce inquietanti che vanno oltre il caso politico raccontato.

Il cinema sociale, militante, incastrato nella realtà come questo riesce ad elevarsi solo quando inizia a porre domande. Quando smette la sua funzione documentaristica e si concede il lusso del dubbio, in quel momento La sindacalista appassiona come i migliori thriller. Quando questo accade non servono orpelli o sguardi enfatici in camera per sentirsi interpellati direttamente. È una vittoria facile, un compito ben fatto, di un film che aveva le potenzialità per andare ancora più in alto.

Continua a leggere su BadTaste