La signora Harris va a Parigi, la recensione
Toni favolistici, Parigi da esportazione per una storia di ideali socialisti tutta intorno all'esaltazione del placemente di Christian Dior
La recensione di La signora Harris va a Parigi, presentato alla Festa del cinema di Roma e in uscita nelle sale dal 17 novembre
Una donna delle pulizie, umile, semplice e di buon cuore viaggia da Londra a Parigi subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, per comprare un vestito di alta moda con i soldi che ha risparmiato tramite fortunose speculazioni e ha ricevuto in seguito alla morte del marito in guerra. Non sa niente del mondo dell’alta sartoria, si è solo innamorata di un abito di Dior dopo averlo visto a casa di una ricca donna per la quale lavora. Anche lei vuole avere accesso a quel mondo. Scoprirà l’elitarismo dell’alta moda prima, come questa schifi le persone del suo rango, e poi che dietro ci sono sarte, modelle e anche direttrici dalla vita umile, lavoratrici non diverse da lei a cui, attenzione che questa è la parte forte, insegnerà a scioperare. Cioè di fatto la signora Harris esporta la mentalità socialista da Londra a Parigi. Incredibile come i francesi, popolo tra i più forti quanto a rivendicazioni, abbiano accettato di prendere parte al film.
Alla fine quindi questa donna umile che mette nel sacco tutti i navigati gentiluomini e gentildonne del jet set con l’arma della semplicità, è uno strumento per un placement incredibile (tutto gira intorno a Christian Dior e alla sua eccezionalità) all'ombra del socialismo (!) e per un’avventura tenera piena di stereotipi. Pure accettando tutto ciò purtroppo La signora Harris va a Parigi non riesce a rendere mai bene cosa possa fare un vestito per una donna, come possa cambiare una vita, creare opportunità, definire l’autostima o influenzare gli altri. L’abito come arma di comunicazione non è mai davvero un tema del film, ma lo è più l’abito come obiettivo da raggiungere, simbolo dell’accesso al meglio della vita.
Il vero spettacolo dentro La signora Harris va a Parigi allora è un altro. È Isabelle Huppert, attrice formidabile, paladina del cinema più difficile in assoluto, quello che si muove in territori sofisticati, che osa ruoli che altri rifiuterebbero, che crea su toni che possiede solo lei ma che poi in una favoletta come questa non solo è a suo agio ma proprio trionfa. Da come centra così perfettamente il tono e quel che serve al suo personaggio è evidente che conosce a menadito anche questa forma di cinema ed ha la capacità e l’intelligenza di dimenticare tutto il resto che sa fare per adattarsi in toto, come se non avesse fatto altro per tutta la vita e fosse una navigata professionista del caricaturale. Pazzesca.