La sfida delle mogli, la recensione

Il problema di La Sfida Delle Mogli non è tanto la banalità né tanto il fatto che abbia una visione un po' antica della moglie, ma che non ha nessuno humor

Critico e giornalista cinematografico


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Non ci sono dubbi sull’obiettivo di La sfida delle mogli (una volta tanto un titolo italiano più vivace dell’originale e blando Military Wives): fare elegante intrattenimento per signore. Per riuscirci Peter Cattaneo depone le scarse armi di vera commedia che aveva dimostrato di possedere (a tratti) e punta tutto sul potenziale garbato e rassicurante della storia che gli viene affidata, punta sulla musica pop anni ‘80 e ‘90 per un target in linea con l’età delle donne rappresentate, e più che cercare un vero equilibrio da commedia amara (che non c’è mai) cerca almeno di far canticchiare il pubblico.

Il film è una specie di versione romanzata di una serie documentaria BBC del 2011 che racconta come sia nato il primo coro di mogli di militari inglesi e a cosa serva (distrarle dalla preoccupazione per i mariti in missione, ci viene ripetuto fino allo sfinimento, così tanto che pare che siano i mariti i veri eroi del film). Il fenomeno dei cori è poi cresciuto fino a diventare un classico nelle basi militari. Del resto anche nel finale del film vediamo un montaggio di veri cori di mogli di militari. È insomma una storia di sicura presa che, partendo da vere situazioni e reali condizioni, rinforza l’idea della “moglie a casa preoccupata”, la cui vita è tutta figli e alleggerimenti, come il coro, trastulli che quando diventano qualcosa di serio c’è da stupirsi.

Queste storie sono un classico della commedia inglese (Full Monty è stata quella di maggior incasso e forse per questo è stato scelto il suo regista) ma nei casi migliori sono raccontate per condannare la condizione di partenza dei protagonisti, per mostrare come abbiano poco e quel poco sia per loro straordinario. Non c’è da esserne contenti (in quei film) ma da innervosirsi per la loro condizione. Qui invece il tono è completamente diverso, non c’è empatia per il fatto che queste siano donne che vivono una situazione di totale subalternità, quello è un dato di fatto che il film accetta senza problemi e anzi rischiara mostrando il loro grande cuore.

Talmente è blando il ritmo e talmente è determinato il film a rassicurare invece che mostrare qualcosa di diverso, che si assicura di inserire in sceneggiatura diverse battute che spiegano il punto di tutto: ”È come Sister Act ma senza la mafia e Dio” o “È più una questione di entusiasmo che di tecnica o risultato” dirà una direttrice del coro all’altra, riassumendo l’approccio di Cattaneo a queste storie e l’approccio poi di molte storie simili delle commedie inglesi, in cui lo stare insieme ed unirsi per un obiettivo è quello che porta persone in difficoltà a poter risolvere anche i propri problemi.

Ad animare il tutto, se non altro, dovrebbe essere la dialettica tra le due direttrici del coro, l’algida Kristin Scott Thomas, con un figlio morto in guerra e un marito in missione, e Sharon Horgan, dotata di una vena più pop ma anche più cinica. Cioè professionalismo contro inadeguatezza, musica come questione seria o come veicolo d’entusiasmo. Eppure è davvero impossibile che anche questo piccolo compito possa dirsi riuscito, nonostante le attrici coinvolte, in un film che è così determinato ricalcare ogni luogo comune del cinema. Non mancherà infatti la grande corsa in macchina per arrivare in tempo (e a sorpresa non si sa per chi) nel luogo del grande concerto finale.

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