La santa piccola, la recensione
La santa piccola è miracoloso più che altro per come maschera il più a lungo possibile tutte le sue mancanze, salvo poi doversi mostrare alla fine quando è tempo di trarre le necessarie conclusioni.
Ambientato nel rione Sanità di Napoli, come opera prima La santa piccola di Silvia Brunelli già sulla carta si presta a una sfida rischiosa: trovare un modo non scontato per costruire un proprio immaginario del rione e del suo microcosmo sociale. Di questo luogo - il napoletano in generale - di cui il cinema italiano contemporaneo ha fatto quasi terra d’elezione, Silvia Brunelli offre un ritratto dal tono però più che incerto. A metà strada tra il pittoresco-macchiettistico, che rivela l’intento comico e punta all’esagerazione grottesca, e un’autorialità più allusiva e metaforica, a cui cerca di arrivare ma che gli è decisamente poco congeniale, La santa piccola è invece un tentativo di fiaba moderna la cui aspirazione magica si perde fin da subito in trovate grossolane e visioni simbolicamente blande.
Perso a rincorrere i problemi di un protagonista che si limita a tratteggiare in superficie, La santa piccola lascia da parte le velleità più grottescamente promettenti dell’inizio (o meglio della prima scena), per costruire con un affanno palpabile scene che vogliono essere sensuali e che invece risultano grezze, momenti romantici che diventano involontariamente comici, allusioni metafisiche che risultano molto più che ordinarie. C’è insomma, oltre a un problema di focus narrativo, un problema di tono evidente che non riesce a sopperire alle mancanze del primo. La macchietta irriverente del microcosmo paesano si perde subito nella serietà del dramma d’autore, ma a sua volta ciò che vuole essere drammatico e sentito si rivela esso stesso, all’inverso, una macchietta (soprattutto il personaggio di Mario, con tanto di effetti sonori che lo contornano e lo trasformano quasi in un cartoon).
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