La sala professori, la recensione
Un grande film sulla scuola e la pedagogia, un ritratto spietato della violenza nascosta dietro l'ordine sociale.
La recensione di La sala professori, il nuovo film diretto da İlker Çatak, in arrivo al cinema dal 29 febbraio.
Una serie di misteriosi furti sconvolge la tranquillità di una scuola tedesca. Carla Nowak (Benesch) insegnante giovane e brillante, decide di prendere l’iniziativa e scoprire i colpevoli con metodi poco ortodossi. La reazione a catena che ne nasce, fatta di delazioni, pregiudizi sopiti, minacce e violenze, porta alla luce tutta la fragilità dell’ordine vigente nella scuola. Quello che sembra un equilibrio solido, fondato su valori di civiltà e razionalità che i ragazzi assorbono insieme ai logaritmi e al teorema di Talete, collassa su sè stesso, rivelando un doppiofondo fatto di coercizione e sotterfugio.
Se il film riesce a coinvolgere e non risultare predicatorio è perchè sceglie di raccontare tutto questo dall’interno, adottando il punto di vista di un’insegnante idealista e benintenzionata che poco a poco vede sgretolarsi le sue certezze morali. Affidato ai primi piani della straordinaria Benesch, questo processo di scoperta si traduce in un ritratto psicologico intenso e sofferto, che a tratti sconfina nell’incubo avvicinandosi a logiche da cinema horror. Nello stesso senso si muove la messa in scena gelida di Çatak, che fa sua la lezione di film-chiave sul collasso della pedagogia come Elephant (le carrellate controllatissime) e L’onda (il riemergere di logiche autoritarie nella moderna società tedesca), oltre a un’ironia di stampo quasi kubrickiano sul malfunzionamento di sistemi apparentemente razionali dietro cui si riaffaccia la logica della sopraffazione. La carne al fuoco è davvero tanta, ma il risultato è all’altezza delle ambizioni.