La sala professori, la recensione

Un grande film sulla scuola e la pedagogia, un ritratto spietato della violenza nascosta dietro l'ordine sociale.

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La recensione di La sala professori, il nuovo film diretto da İlker Çatak, in arrivo al cinema dal 29 febbraio.

La sala professori potrebbe essere uno dei film più feroci non solo sul sistema scolastico, ma su tutta un’idea di civiltà che si siano visti di recente al cinema. La pesantezza del suo impianto allegorico, che può dare l’impressione di un film troppo a tesi e spiegato, è riscattata dalla coerenza del discorso politico e dall’energia della narrazione, sorretta da una sceneggiatura di ferro e dalla prova stellare di Leonie Benesch. Se ironicamente un certo tono didascalico è ciò che appesantisce tanti film sulla scuola e l’insegnamento, quella di İlker Çatak si pone come una specie di anti-pedagogia; la storia di un fallimento così assoluto e deflagrante del moderno concetto occidentale di formazione e trasmissione di valori, da giustificare di essere raccontato come un film-inchiesta paranoico degli anni ‘70, a tratti addirittura come un horror.

Una serie di misteriosi furti sconvolge la tranquillità di una scuola tedesca. Carla Nowak (Benesch) insegnante giovane e brillante, decide di prendere l’iniziativa e scoprire i colpevoli con metodi poco ortodossi. La reazione a catena che ne nasce, fatta di delazioni, pregiudizi sopiti, minacce e violenze, porta alla luce tutta la fragilità dell’ordine vigente nella scuola. Quello che sembra un equilibrio solido, fondato su valori di civiltà e razionalità che i ragazzi assorbono insieme ai logaritmi e al teorema di Talete, collassa su sè stesso, rivelando un doppiofondo fatto di coercizione e sotterfugio.

Naturalmente il punto non è solo la scuola. Il sistema scolastico di La sala professori è microcosmo di qualcosa di più grande, nientemeno che le moderne e “illuministe” società europee, di cui aule e insegnanti dovrebbero essere il baluardo culturale, e che invece ne rivelano già in nuce il fallimento. Dietro la facciata sorridente, lo Stato riflesso e incubato dalla scuola è un tiranno disposto a violare le libertà e la privacy dei suoi cittadini, come il Nixon di Tutti gli uomini del presidente (e infatti anche qui gli si oppone una task force di giornalisti eroici).

Se il film riesce a coinvolgere e non risultare predicatorio è perchè sceglie di raccontare tutto questo dall’interno, adottando il punto di vista di un’insegnante idealista e benintenzionata che poco a poco vede sgretolarsi le sue certezze morali. Affidato ai primi piani della straordinaria Benesch, questo processo di scoperta si traduce in un ritratto psicologico intenso e sofferto, che a tratti sconfina nell’incubo avvicinandosi a logiche da cinema horror. Nello stesso senso si muove la messa in scena gelida di Çatak, che fa sua la lezione di film-chiave sul collasso della pedagogia come Elephant (le carrellate controllatissime) e L’onda (il riemergere di logiche autoritarie nella moderna società tedesca), oltre a un’ironia di stampo quasi kubrickiano sul malfunzionamento di sistemi apparentemente razionali dietro cui si riaffaccia la logica della sopraffazione. La carne al fuoco è davvero tanta, ma il risultato è all’altezza delle ambizioni.

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