La ricerca della felicità

Inizio anni ottanta. Chris Gardner viene abbandonato dalla moglie e deve crescere suo figlio da solo, mentre sta facendo pratica senza stipendio in uno studio finanziario. Il film di Muccino è interessante, ma è troppo incentrato su Will Smith e suo figlio…

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Questo film è un evento. Pensate quello che volete di Gabriele Muccino, ma il fatto di girare una pellicola importante a Hollywood con la star di maggiore successo degli ultimi 10-15 anni, è notevole. D’altronde, si tratta di un risultato che (a mia memoria) nessun altro regista italiano ha mai raggiunto (anche perché magari non erano così interessati), che si parli di Fellini, Rossellini, Visconti o Bertolucci. Al massimo, potremmo considerare C’era una volta in America un precedente, ma in quel caso si trattava più di un film d’autore a grosso budget che una pellicola commerciale e poi buona parte delle riprese avvenne fuori dagli Stati Uniti.

Insomma, Gabriele Muccino ha ottenuto un risultato storico con La ricerca della felicità. Questo non significa che bisogna parlarne bene a priori e farsi trascinare dal ‘tifo’, ma sicuramente certi snob che non l’hanno mai amato (criticandolo anche eccessivamente e talvolta a sproposito) dovrebbero riflettere meglio sulla loro idea di cinema.

La ricerca della felicità, per certi versi, è quello che dovrebbe essere un film americano contemporaneo e quasi mai è. Una storia e dei personaggi interessanti, degli attori bravi (ma che non si mettono eccessivamente in mostra) e una regia calibrata e precisa, senza per questo essere piatta.
Proprio quest’ultima caratteristica è probabilmente quella che costerà a Muccino una nomination agli Oscar per la miglior regia. E’ un peccato, perché si tratta di un lavoro molto elegante e misurato, in una situazione in cui sarebbe stato facile farsi prendere la mano ed esagerare con i dolly e i primi piani lacrimosi.

Ma dove Muccino dimostra di essere ancora una volta bravissimo è la direzione degli attori. D’altronde, stiamo parlando dell’uomo che ha dato vita alla migliore interpretazione di sempre di Monica Bellucci. Qui tiene a bada non solo il naturale istrionismo di Will Smith, ma anche il rapporto con il figlio (che è veramente tale, anche nella vita reale), senza permettere a nessuno di esagerare.

Il problema è che il film diventa uno sfondo esclusivamente per il rapporto tra padre e figlio: non c’è altro. Non si tratta, come detto, di una questione di un attore che vuole tutti i riflettori per sé, ma del fatto che la sceneggiatura (del poco esperto Steve Conrad) è assolutamente incapace di costruire personaggi di contorno interessanti.

La madre del bambino scompare dopo circa mezz’ora, ma comunque non c’è nessun tentativo di capire la sua vita e le sue ragioni (a parte quelle più superficiali). Il resto dei personaggi che circondano Chris Gardner sono delle macchiette, che hanno come unica funzione quella di aiutare (o meno) il personaggio principale, ma senza mettere in mostra una vera personalità. Così, si spreca un cast interessante, formato da attori di valore come Thandie Newton, Brian Howe e Kurt Fuller.

E poi, lo schema del film funziona benissimo per la prima parte (quando gli ostacoli iniziano ad aumentare per il protagonista), mentre nelle seconda si ha l’impressione di rivedere una serie di situazioni praticamente uguali a quelle precedenti. La cosa peggiore è che la scalata al successo di Gardner è praticamente invisibile: tutti sono gentili ed entusiasti di lui, ma noi lo vediamo soltanto in circostanze sfortunate e negative.

Insomma, una pellicola interessante nell’asfittico panorama americano, ma che avrebbe potuto essere notevolmente più interessante con un lavoro più approfondito sulla sceneggiatura. Vedrete che, qualsiasi sia il prossimo film di Muccino, migliorerà.

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