La ragazza di Stillwater, la recensione

La ragazza di Stillwater ricorda molto la cronaca vera, ma se ne distacca per osservare un padre disposto a tutto per la propria figlia

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La ragazza di Stillwater inizia come una trasposizione cinematografica delle vicende di Amanda Knox (la quale ha scatenato diverse polemiche dopo l’uscita del film) e finisce come Prisoners di Denis Villeneuve. Nel corso di questa trasformazione da un tono all'altro c’è veramente poco a cui appassionarsi e ancora meno idee originali. C'è però molta ambizione e un grande senso di orgoglio che traspare da ogni inquadratura che non contribuisce a salvare un film pieno di inciampi.

Non siamo certo dalle parti del Tom McCarthy de Il caso Spotlight, che trattava il giornalismo di inchiesta con una messa in scena curata nei dettagli, abilmente giocata sul subliminale e il non detto. La ragazza di Stillwater usa però la stessa idea di spostare l’attenzione su una figura secondaria, distante dalle vicende principali. Prima erano i giornalisti che indagavano sulle vittime di abusi. Ora è un padre, Bill Baker (interpretato da Matt Damon), che deve accettare l’incarcerazione della figlia Allison per un omicidio commesso a Marsiglia. Convinto della sua innocenza, condurrà in privato delle contro-indagini con tutti i mezzi a disposizione, anche illegali, nel tentativo di scarcerarla. 

Un pesce fuor d’acqua, americano, contro le tante barriere di un paese diverso. In questo caso si tratta della Francia, nonostante l’insistenza su dettagli come il culto della “vera” pizza e l’ossessione per il calcio, suggeriscano altro… Il primo grande ostacolo che deve affrontare è ovviamente linguistico. Bill è un operaio poco istruito e dai modi grezzi. Non conosce il francese e ha difficoltà ad impararlo. Un Davide contro il Golia dell’impianto burocratico e di giustizia di una nazione straniera. Un alieno disposto a umiliarsi per l'amore e il senso di colpa verso la figlia. Bastava questo, e invece McCarthy riempie La ragazza di Stillwater di temi: la religione contro la morale individuale, la paternità di sangue e quella acquisita, il senso di verità e la fiducia, l'ipocrisia e la fallibilità della giustizia.

A fare da collante, debole, c'è un incontro. Bill nella sua ricerca conosce e si affeziona a una famiglia francese, composta da una madre single (come lui che ha perso la moglie) e una bambina, Maya, parallelo simbolico di innocenza rispetto ad Allison. 

La ragazza di Stillwater crolla qui sotto la voglia di dire troppo senza avere il tempo di sviscerare i temi in una maniera più complessa del “pensierino” retorico. L’incontro linguistico, e quindi la barriera di comprensione che rende più difficile lo scambio di informazioni, è messo in scena con una tale incuria da sembrare quasi una parodia. Le vicende delle due famiglie non si amalgamano mai dando un senso di vera necessità.

Molte le assurdità: per tutto il film Matt Damon parla a Maya, che non avrà più di una decina di anni, in inglese pretendendo che lei lo capisca. Non rallenta le parole, non usa termini più semplici, non le dà alcun aiuto alla comprensione. Niente! Lei deve seguirlo e capirlo. E in parte, dopo poche settimane che si conoscono, ce la fa anche! La bambina impara più velocemente l’inglese di quanto lui impari il francese. Un dettaglio su cui si sarebbe potuto soprassedere se non fosse che per tutto il film lo vediamo incontrare persone che non conoscono una parola oltre la lingua (“do you speak English?” “Yes, I am”, gli risponde un avvocato dopo averlo accettato nel suo studio e aver finto di leggere i documenti). Ovviamente per comunicare dovrà fare affidamento a stuoli di traduttori volontari, ma mai a internet!

La ragazza di Stillwater è anche un thriller giudiziario che cerca di andare oltre i propri confini pretendendo di fotografare tutti i rapporti geopolitici in atto qualche anno fa. L'esito è solo un incontro tra terribili stereotipi. All’americano vengono rivolte le domande più assurde: “hai votato Trump?” detto come modo per conoscersi e fare conversazione, così, tra amici!

Manca qualsiasi approfondimento culturale, ogni sfumatura, eppure il film pretende di raccontarle. Butta invece dentro di tutto nella maniera peggiore. Il possesso delle armi per l’auto difesa è un argomento di conversazione a tavola per farsi due risate. I razzisti francesi sono brutti, viscidi, e non fanno nulla per nascondere il loro odio (un personaggio è disposto a fare falsa testimonianza pur di condannare un ragazzo visto in foto la cui faccia non gli piaceva). In una scena addirittura si declama che, siccome sono in Francia, possono parlare esplicitamente di sesso di fronte ai bambini (ma perché?). E la vera trama passa in secondo piano.

Sebbene Bill sia disperato, tanto da interrompere lezioni universitarie entrando dalla porta e rivolgendosi direttamente al professore, venendo ben accolto da quest’ultimo, La ragazza di Stillwater non ha mai un senso di urgenza. Soprattutto manca della colonna portante, enunciata a parole solo nel finale, ma mai percepita veramente: ovvero il dilemma della verità. Il padre non si interroga mai sull’innocenza della figlia. Compie le più terribili azioni, sprofonda in una spirale ossessiva che potrebbe rovinargli la vita per sempre pur di scagionarla ma non ha mai un cedimento nella sua convinzione.

Si riesce ancora a intravedere quello che voleva fare Tom McCarthy con questo film. Cerca una piccola storia privata per affrontare problemi globali, osservare come la verità non sia un fattore oggettivo. I bias e i pregiudizi offuscano la mente anche di chi è nel giusto, dice. E vuole fare tutto questo giustificando però la sua morale con le emozioni di un padre che cerca di ricucire il rapporto con la figlia. Ineccepibile su carta, non trova riscontro sullo schermo.

Forse avrebbero potuto salvare il film le performance. Matt Damon mette tutto se stesso, anche con una fisicità insolita e molto realistica, Abigail Breslin offre invece una delle peggiori performance della sua carriera. Sempre fuori sincrono con le emozioni, mima reazioni stereotipate alle notizie che le arrivano. È sempre passiva, tranne in un unico momento in cui innesca l’azione del film. E soprattutto non regala mai quell’ambiguità che, come scopriamo nell’ultima battuta, avrebbe dovuto essere il vero senso in cui leggere questa operazione fallimentare.

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