La ragazza delle renne, la recensione

Il film tratto dal bestseller di Ann-Helén Laestadius non brilla come thriller, ma offre un'affascinante panoramica sulla cultura Sami.

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La recensione di La ragazza delle renne, il nuovo film diretto da Elle Márjá Eira, in arrivo su Netflix dal 12 aprile.

La ragazza delle renne mette di fronte a un prendere o lasciare. Per apprezzarlo e difenderlo bisogna accettare che un film possa valere più per la sua missione etica che per la sua abilità d’esecuzione. Non che si tratti di un film “brutto” – solo uno dei tanti prodotti Netflix un po’ incolori, tanto corretti quanto privi di personalità, che interessano soprattutto per la capacità della piattaforma di intercettare contesti geografici e culturali inediti. Difficilmente lo ricorderemo per la trama thriller che usa per raccontare le sofferenze del popolo Sami, ma la raffigurazione della loro cultura che fa da sfondo alla vicenda resta impressa per dettaglio e forza documentaria.

Tratto dal recente bestseller di Ann-Helén Laestadius, svedese di origini Sami, La ragazza delle renne è fatto di due elementi intersecati: una storia di violenza e riscatto, emblematica dei crimini d’odio compiuti ai danni di questo popolo (a lungo oggetto di persecuzioni e tuttora in delicato equilibrio con le nazioni scandinave), e una carrellata dall’interno del loro mondo in cui ci guida la protagonista Elsa (Elin Oskal), che da bambina assiste all’uccisione della sua renna da parte di un razzista svedese ma non ha il coraggio di denunciare le continue vessazioni ricevute.

Se il primo elemento non trova mai davvero un respiro appassionante, l’excursus negli usi dei Sami contemporanei e nelle problematiche che li affliggono è sorprendentemente ricco e sfaccettato. In meno di due ore veniamo introdotti ai loro riti d’iniziazione, alle loro gerarchie sociali, alla bellezza dei costumi, al loro rapporto coi territori ghiacciati che abitano e con gli animali che gli fanno da sostentamento. Vediamo anche il punto di vista bacato dei loro persecutori, disinteressati alla distruzione dei territori di pascolo e offesi dallo stanziamento di sussidi economici per il loro risarcimento da parte del governo svedese.

Con le dovute proporzioni (non muore nessuno a parte qualche renna) questo resoconto di una convivenza impossibile fra nazione egemone e popoli nativi può ricordare quanto visto in Killers of the Flower Moon. C’è perfino un’inquadratura dall’alto con una composizione circolare che sembra richiamare esplicitamente il finale dell’ultimo Scorsese. Se una trama thriller non proprio avvincente – anche perché racconta un crimine “piccolo” e tristemente quotidiano – è il prezzo da pagare per uno spaccato così interessante, per una volta possiamo farcela bastare.

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