Principessa Mononoke, la recensione

Un racconto nel pieno stile delle avventure occidentali, ambientato in un Giappone esotico. Una storia che riesce a dare nuova vita a ogni cliché con un dinamismo impressionante...

Critico e giornalista cinematografico


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ATTENZIONE! La versione italiana 2014 di La principessa Mononoke è stata ritradotta e ridoppiata, visto che nella precedente era stato fatto un pessimo lavoro di adattamento dei dialoghi cambiando molto sia di quel che si dice, sia di come lo si dice, sia del registro linguistico con il quale lo si fa. Qui abbiamo raccontato nel dettaglio cosa sia cambiato. La presente recensione fa dunque riferimento alla nuova versione italiana, quella più fedele all'originale giapponese.

L'impressione iniziale, vedendo Principessa Mononoke, è quella di un film sulla guerra tra uomo e natura, tanto interessato alla distruzione che la guerra porta in sè quanto alle difficoltà dell'uomo di convivere con le creature naturali. In realtà non è solo quello il conflitto, tutti sono in guerra con tutti, quello con la natura è solo l'unico a trovare (un'apparente) soluzione. Gli animali combattono con altri animali (cani selvatici e cinghiali, oranghi e cani selvatici) e gli uomini combattono contro altri uomini, prima ancora che contro altri animali. Ognuno con le proprie ragioni, anche i peggiori, ognuno con una sua umanità e fragilità. Il pubblico, come fosse Ashitaka stesso, vede ogni fazione e con ognuna empatizza. Già questo basterebbe a rendere Principessa Mononoke un caso (quasi) unico nella storia del cinema.

Chi conosce Miyazaki sa però che in realtà questa mania del mettere diversi personaggi in conflitto è un espediente che ricorre spesso: far confliggere due punti di vista sul mondo come esercizio di imparzialità, dimostrare sempre che nessuno merita la nostra adesione a tutti i costi come il nostro disprezzo. In questo film è solo più in vista poichè "lo scontro" sta anche al centro della trama.

Mononoke è infatti la storia più avventurosa, in senso classico, tra quelle raccontate da Miyazaki, non a caso una delle pochissime con un protagonista maschile (a dispetto del titolo), di certo la più dura e violenta, l'unica con un elevato numero di arti mozzati, teste che saltano, minacce, sangue e personaggi che non temono di uccidere. Si ha costantemente l'impressione che possa accadere qualcosa di efferatissimo d'improvviso (quando i cani selvatici attaccano un inerme Ashitaka prima che Mononoke li fermi, si vede bene che hanno afferrato solo la sua testa nelle grandi fauci per frantumarla in bocca). Ma assieme a Porco Rosso è anche il film in cui affiora di più la grande capacità di animare la velocità, l'azione e la plasticità dei gesti (Ashitaka che cambia la corda dell'arco subito prima di montare sullo stambecco/yak in corsa è un gioiello di armonia e poesia dei movimenti). Pochissimi gesti ma perfetti per rendere digeribili ed esaltanti azioni complesse.

Principessa Mononoke è quindi un'avventura esotica nel solco di quelle occidentali, in cui si parla una lingua lontana nel tempo, elevata nei riferimenti e poetica negli abbinamenti, una storia piena di spade, frecce, intrighi, inganni e scontri, in cui un eroe immacolato lotta per non morire mentre scopre una ragazza perduta dal fascino incredibile. Solo l'ambientazione è nipponica, il resto esce dalla letteratura occidentale (grande fissa di Miyazaki), poichè nella Grande Storia se ne svolge una più piccola, in un conflitto immenso (per proporzioni e persone coinvolte) due piccoli uomini si trovano e cercano di rimanere uniti.

Oltre a ciò ci sono anche moltissimi clichè rispettati in pieno (quando invece Miyazaki è solito tradirli) e forse proprio per questo si nota più del solito la differenza che è in grado di fare la capacità di creare singole immagini significative in un grande racconto. Un esempio per tutti è il clichè dell'amore scattato con colpo di fulmine quando il principe guarda di nascosto per la prima volta la principessa (Disney ci ha costruito un impero ripetendo questa scena fino a fargli perdere sapore). Ashitaka, fiero e indistraibile dal proprio obiettivo, così dolce nei modi ma anche distaccato nelle relazioni, con uno sguardo solo perde la testa. Il massimo del banale è reso autentico e credibile solamente centrando l'immagine giusta: l'oggetto d'amore compare succhiando il veleno dalla ferita di un animale e quando si gira per mostrare il viso per la prima volta è fiera, dura, imbronciata e noncurante d'esser sporca di sangue intorno alla bocca. Un'immagine che è diventata il simbolo del film. Giustamente.

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