La Piedad, la recensione

Ritratto di un malsano rapporto madre-figlio, La Pietad gira per tutto il tempo intorno a un unico concetto, senza originalità

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La nostra recensione di La Piedad, presentato al Torino Film Festival

Anche 84 minuti possono essere troppi per un film, se non fa che ruotare intorno alla stessa idea, e se per giunta questa non è così originale, nella concezione e nella messa in scena. Ancor di più se l'opera in questione si prefigge di essere un horror, senza riuscire mai ad angosciare. Accade questo in La Piedad, secondo lungometraggio di Eduardo Casanova, presentato al 40° Torino Film Festival. Del precedente film del regista, Pelle, ritorna l'estetica color pastello dominato dal rosa, che qui si abbina al nero, e il senso di disgusto che vogliono creare alcune sequenze. Ma viene meno il senso del trash e del queer, per arrivare a un'atmosfera grottesca svuotata dall'ironia che, in prolungati piani fissi all'interno di ambienti geometrici e asettici, pian piano diventa creepy. Ma cosa c'è da scoprire, o da sorprendersi, in una storia i cui assunti sono evidenti fin dalla prima scena?

Protagonisti delle vicende sono una madre, dal nome Libertad, e un figlio adolescente, Mateo. Vivono soli in una grande casa, il padre è lontano, non hanno nulla da fare se non lezioni di danza a cui la donna prende parte mentre il figlio si limita ad assistere. Nello stretto rapporto tra i due, nel modo in cui lei domina lui (chiaro ora l'ossimoro col suo nome?) è chiaro che c'è qualcosa di malsano. La situazione degenera quando a lui viene diagnosticato un cancro: lei non ci crede e comincia a sostenere che sia lei quella che sta male. Chi arriva per aiutarli, una psicologa e la nuova fidanzata del marito, viene schiacciato.

Mettendo dunque al centro un tema, quella della maternità, oggi tema diffusissimo nel genere horror (Hereditary e Run, tanto per citarne due) La Piedad non offre dunque nessuna prospettiva originale. Nè si preoccupa di esplicitare i suoi riferimenti, dal titolo che rimanda all'omonimo film di Kim Ki-duk, così come in una scena sul finale chiaro omaggio a Gozu di Takashi Miike. Si propone solamente di creare un'estetica patinata che vorrebbe scioccare con alcune scene forti, ma non ci riesce, perché queste non sono a sufficienza supportate dall'intreccio. La questione è anche di prospettiva: tutto porta verso un finale scontato e le posizioni rimangono immutate per tutto il film. Se in Pelle l'obiettivo era stravolgere le attese, mostrando persone "diverse" in una celebrazione sincera della loro condizione, senza alcuna concessione alla "normalità", qui una volta esplicitato l'assunto della "madre cattiva e figlio vittima" non se ne esce mai. Così, un'atmosfera da incubo viene minata da una concezione troppo razionale, troppo quadrata nei suoi orizzonti.

Solo in un breve passaggio c'è un leggero smottamento, quando per un attimo è come se il regista volesse raffigurare il rapporto tra i due protagonisti come potenzialmente sano, mettendo in discussione il nostro punto di vista, che mai potremmo pensare di accettarlo. Ma poi no, è evidente che la madre è un mostro è il figlio un bambino inerme, tutto è chiaro come il sole. Il sole, appunto, che viene usata a un certo punto come termine di paragone per Libertad: "se ti allontani ti congeli e se ti avvicini ti bruci". Una delle tante spiegazioni verbali che vengono proposte, togliendo qualsiasi fascino alla storia.

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