La padrina, la recensione

Una storia che altrove poteva essere banale diventa in La padrina qualcosa di complicato ed è solo grazie alla presenza di Isabelle Huppert

Critico e giornalista cinematografico


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La padrina, la recensione

Isabelle Huppert fa tutto. La sua carriera partita con il cinema arthouse più audace (quel che ha fatto con Haneke è da applausi per il coraggio) è poi sfociata anche in quello commerciale. Ora è capace di andare nelle foreste per Brillante Mendoza e poi diventare una spacciatrice di droga in La padrina, film leggero a cui solo la sua presenza permette di essere anche ponderoso. È il suo corpo la cosa più interessante di tutte. Non ci sono dubbi.
La storia è convenzionale, quella di una donna borghese annoiata e con pochi stimoli nella vita che fa un lavoro a contatto con il crimine, è traduttrice dall’arabo per la polizia, sempre impiegata nelle retate, negli interrogatori o nelle intercettazioni. Ha la fiducia del capo della polizia, che è anche un suo forse spasimante, tuttavia per una serie di intrecci capisce di stare traducendo le parole e le azioni del figlio della badante di sua madre. Escogita con lei un piano per impedire alla polizia di arrestarlo e da lì si innamora delle possibilità di guadagno con la droga e dei vantaggi della sua posizione di traduttrice: sa tutto di cosa fa la polizia, gli dà gli indizi sbagliati e poi si traveste per incontrare gli spacciatori.

È un film che altrove sarebbe stato molto molto pigro e convenzionale, che non disdegna colpi di gomito al mondo delle donne (incontrerà la mafia cinese che fa il lavoro di riciclare il denaro sporco e questa sarà gestita da un’altra donna della sua età, un matriarcato criminale), ma che con in mezzo il corpo asciutto nervoso e sempre antieroico di Isabelle Huppert ha tutta un’altra credibilità. È tutta la vita che costruisce su di sé una persona filmica antipatica, scivolosa e con cui non solo è difficile empatizzare, ma è proprio interessante relazionarsi. I suoi personaggi essendo negativi e cinici hanno sempre motivazioni particolari e sono animati da interessi fuori dalla norma. Questa madre rimasta sola, in cerca di un amore, che capisce di poter fare altro ha anche delle memorie di una vita passata, capiamo che è piena di sogni andati via e nostalgia per un passato che rielabora con una nuova vita criminale.

Anche il finale del film, così crepuscolare e incredibilmente francese (nel senso di cinematograficamente francese) porta con sé, una serenità di sguardo ad affari, eventi e snodi narrativi da Walter White di Breaking Bad (perché di quello parliamo) che risollevano un film per altri versi più banale della sua protagonista. Forse, chi lo sa, il progetto era una commedia prima che arrivasse lei (sembrano orientati in quella direzione molti degli altri personaggi, chi proprio macchietta, chi più leggero, e sembra orientata in quella direzione il soggetto con la donna che si traveste goffamente da araba), ma la sua presenza raffredda tutto e invece che portare ad un aumento della distanza dallo spettatore lo intriga e lo avvicina.

Tutti gli attori sono capaci di ridere, sorridere e sembrare felici. Quando lo fa Isabelle Huppert è sempre sospetto, c’è sempre qualcosa dietro. E quel qualcosa, quell’ansa di mistero è il motore del desiderio dello spettatore di saperne di più, di indagare il film e intrecciare con esso un rapporto profondo.

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