La Nuit de Rois, la recensione | Venezia 77

Finalmente ci arriva qualcosa dal cinema africano che tenti di parlare una lingua sua. La Nuit De Rois piega il film di carcere iniettando tribalismo e libertà

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La storia del cinema africano (di paese in paese con tutte le differenze del caso) è quella di un’industria spaccata tra il massimo del commerciale a budget bassissimi (la cui punta è la Nollywood nigeriana, fatta di action e voodoo films smerciati in DVD e file) e un cinema d’autore che sbarca nei festival europei sempre imitando i corrispettivi occidentali. Il vero cinema africano, specifico, unico, personale, innovativo perché diverso, non lo vediamo. O almeno fino ad ora. Perché La Nuit de Rois è uno dei primi film ad arrivarci che fa tutto un altro discorso. Lo dirige Philip Lacote, al terzo lungometraggio, ed è una co-produzione ivoriano-francese

Le premesse sono una bomba che piega i generi occidentali a situazioni, ispirazioni e cultura non occidentale.

Nella prigione di La Maca, all’interno della quale i detenuti si autoregolano in una società a sé, arriva un nuovo detenuto, un ragazzino secco e spaesato. Sta arrivando la prima notte di Luna rossa e nella più tribale delle tradizioni il grande capo di tutto il carcere (che ovviamente non è il direttore, ma un prigioniero, il grande Barbanera, malato e quindi arrivato alla fine del suo regno) ha deciso che lui, il nuovo arrivato, sarà “il narratore” cioè l’incaricato di intrattenere con una storia tutti gli altri detenuti, quella massa animalesca, la “giungla” come la chiamano le guardie. La dovrà tenere buona con la storia che pretendono, in piedi su una cassa di frutta.

È una tradizione della cultura sviluppatasi nel carcere, il narratore deve raccontare, lo voglia o meno (l’alternativa è facile immaginarla). Così il ragazzo inizia ad inventare e in una notte piena di eventi, incroci, intrecci e interruzioni inventa storie per rimanere vivo di fatto ripercorrendo la grande storia dell’industria culturale.

A lui, che inizia attingendo dalla propria vita come un dramma realista ma sfocia nel blockbuster fantasy quando sta perdendo il pubblico, gli altri criticano i buchi di trama, richiedono personaggi particolari, riconoscono le citazioni che fa (City of God di Meirelles) e si arrabbiano quando ci ficca la politica (ma lui, ormai esaltato, ce la mette lo stesso).

Esaltato dal ruolo e dalla riuscita dei suoi racconti che sono coreografati all’impronta da alcuni detenuti che mimano ballando quel che racconta (bellissime le coreografie, cinema liberissimo che stupisce per composizione e orchestrazione) mentre altri fanno letteralmente una specie di coro greco, il narratore capirà però che a fine storia lo aspetta la morte e allora comincia con i prequel e i sequel. Addirittura c'è anche un "magical negro" che coerentamente con l'ambientazione è l'unico bianco (Denis Lavant).

La location (reale) è metà del film chiaramente, è frutto di una grande tradizioni di carceri che sono mondi a sé (da Alcatraz a Sorvegliato speciale a Le ali della libertà fino al recente Viaggio in paradiso), questo mondo di uomini che vivono con violenza e sopraffazione la legge della giungla ma poi hanno bisogno pazzeschi inespressi. La parte animalesca del maschio unita a quella primordiale della donna.

Lacote lungo tutto il film non fa solo un ottimo servizio alla sceneggiatura (che ha anche scritto), la amplia e la gonfia creando un mondo con libertà invidiabile. C’è in La Nuit de Rois una capacità di piegare fino alle fondamenta un genere che conosciamo, iniettandoci qualcosa di tradizionale, ancestrale e radicato in un luogo così lontano da dove il cinema di carcere è fiorito, che sembra di averlo rifondato sotto nuove insegne. Le radici sono nel cinema americano ma esiste in questo film un nocciolo duro africano che non conosciamo, capiamo lungo la sua durata e ci parla di un legame con le radici tribali che non esiste in nessuna altra parte del mondo.

Continua a leggere su BadTaste