La notte del giudizio per sempre, la recensione

La notte del giudizio per sempre doveva uscire un anno fa, e si vede. Abbraccia tutti i suoi aspetti più politici, ma appare solo retorico.

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È incredibile come certo cinema americano riesca ad auto assolversi anche quando sembra invece fare accuse al vetriolo nei confronti della politica U.S.A. È il caso di La notte del giudizio per sempre che, nonostante il titolo, promette di essere il capitolo conclusivo di una saga che, da almeno due film, ha smesso di graffiare come un tempo.

La premessa è sempre la stessa: una notte all’anno gli Stati Uniti sospendono le leggi e i diritti. Tutto è consentito, compreso l’omicidio. Questa giornata di libertà chiamata "lo sfogo" permette una purificazione che mantiene l’equilibrio sociale ed economico per il resto dell’anno. 

Rispetto al film del 2016 La notte del giudizio - Election Year, che aveva ancora un barlume di fiducia nel sistema democratico, questo nuovo capitolo decreta sin dalle prime battute il fallimento della politica. Tutto è tornato come prima, i Nuovi Padri Fondatori hanno deciso di ristabilire lo sfogo. Gli oppositori non sono più pervenuti, anzi!

La notte del giudizio per sempre inizia con buone speranze, ma si perde nel meccanismo di sempre. La prima idea forte è quella di trasferirsi dalle città al Texas più arido. Usa il linguaggio dei western con primissimi piani agli occhi, pose da duro nella polvere, cavalli e pistole. Le persone che abitano il territorio sono però diverse da quelle del cinema classico. Non sono più solo americani, sono nuove generazioni di messicani giunti dal confine. Nel film l’immigrazione crescente ha rinvigorito l’odio. Le prime vittime dell’ondata di violenza saranno proprio i nuovi americani stranieri, “epurati” dai propri concittadini razzisti e intolleranti. Ogni riferimento al Ku Klux Klan, sin dalla locandina, è voluto.

Il film sarebbe dovuto arrivare nel luglio 2020, poi rimandato al 2021 a causa della pandemia. Basta un anno per farlo sembrare drasticamente fuori tempo massimo. Scritto dal padre della saga James DeMonaco con il chiaro intento di tirare una spallata all’amministrazione Trump, il film si crogiola in un’imbarazzante retorica da campagna elettorale. “Questo è un vero cowboy” verrà detto del protagonista messicano da uno dei pochi texani senza la bava alla bocca verso gli stranieri. Proclami a parte, non lo vedremo mai come tale. Sarà sempre un anonimo personaggio in fuga, insieme ad altri cattivi "convertiti". Se ci conosciamo ci vogliamo bene, sembra dire il film, perdendo ogni aspetto selvaggio.

Avrebbe invece potuto attingere molto di più al mito della frontiera per trovare una prospettiva finalmente fresca. Sono infatti molti i punti di contatto: le bande selvagge, la legge che fatica a tenere il controllo, i deboli in pericolo e i pistoleri solitari. Un western distopico in piena regola. Invece non c’è alcun John Wayne contro i folli imbarbariti della città. Non ci sono eroi a cavallo induriti dalla natura, ma saldi nei propri valori e che si oppongono alla rabbiosa società.

La notte del giudizio per sempre è estremamente coerente con il resto della saga, e non fa nulla per distaccarsene. Anzi, si radicalizza, si prende eccessivamente sul serio con la voglia di convertire lo spettatore. L’America che ne esce non è uno stato fondato sul sangue da sempre (si cita solo per un breve istante la sorte dei Nativi Americani). Appare invece come una grande nazione che si è però perduta a causa di oscure macchinazioni di chi vuole il caos nelle strade. "È tutta una questione di soldi", dicono. Nessuna colpa quindi nelle persone. Non si criticano le cause, ma si fa un discorso terra terra sulle conseguenze della crisi sociale, spacciandolo per una grande immagine metaforica.

Fortunatamente il film non è fatto solo di queste parentesi. Le scene d’azione sono inspiegabilmente incostanti, ma talvolta efficaci. Ad esempio: poco dopo la metà i protagonisti devono attraversare un confine. Si fa un riuscitissimo piano sequenza nelle strade infuocate mentre le persone corrono tra i proiettili e le esplosioni. È un momento magnifico, che sembra venire da altri film di altra categoria, in cui il set interagisce con gli attori e vice versa. Subito dopo il gruppo si ritrova al chiuso. È un momento di bassissima tensione mentre incontrano dei cattivi. Seguono delle colluttazioni. Qui invece l’azione è confusionaria, le luci si accendono e si spengono con un effetto stroboscopico da epilessia. Tante inquadrature di copertura.

Tra la prima sequenza e l’altra passano cinque minuti, vedendole sembrano passati film interi.

Meno appassionato alle maschere rispetto ai suoi predecessori, La notte del giudizio per sempre trova comunque alcuni momenti memorabili che si sviluppano attraverso i grotteschi personaggi. Come le trappole disseminate alla luce del sole quasi come enigmi da risolvere alla Saw. Perfetto per le atmosfere della saga anche il nazista catturato dalla polizia che ascolta gli spari della città come se fossero una sinfonia orchestrale. Riconosce ogni strumento (“questa è una Glock, questo un AK-47”) e gode nel sentirsi al centro della pioggia di proiettili.

Sono piccoli istanti in cui il film ritrova le inquietudini che hanno guidato La notte del giudizio verso il suo successo. Manca però la stessa capacità catartica e satirica dello sfogo di far guardare all’interno degli istinti più brutali di ciascuno. Si sente una forte nostalgia di quando questi film, con una scala molto più piccola, trovavano l’orrore nello sguardo ambiguo del vicino di casa.

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