La nostra storia, la recensione

La vera storia di una importante figura della politica sanitaria colombiana in La nostra storia diventa un ritratto umano eccezionale grazie a Javier Camara

Critico e giornalista cinematografico


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La nostra storia, la recensione

Può un film intero, grande e grosso, lungo e soprattutto basato una storia vera reggersi su un unico attore? Può davvero una persona sola, una che non è nemmeno coinvolta nel processo di produzione o scrittura, cambiare così tanto? Javier Camara può.
La nostra storia ha l’intelligenza di aver capito in fretta cosa poteva fare quest’attore al film e ci si concentra anche di più di quanto solitamente non fa un film con il suo protagonista. Gli affida molto di quello che altrove si indica in scrittura.
Nei panni di Héctor Abad Gomez, medico molto benestante della Colombia tra gli anni ‘60 e ‘80, un dottore che non ha mai fatto il dottore, a detta di molti anche incapace di operare, che invece è stato fondamentale nello sviluppo politico del paese a partire dalla sanità.

Siamo dalle parti dell’agiografia dorata, ritratto edulcorato di un uomo prossimo alla santità. Proprio per questo Camara (lanciato a livello internazionale da Pedro Almodóvar in Parla con lei) introduce una verità e un’onestà nell’interpretazione di questo personaggio altrimenti proiettato nell’empireo dei giusti, che sconvolgono. La storia in sé è molto tenera e crea un film caldissimo nella sua semplicità elementare. È tutto visto dallo sguardo del figlio (dal cui libro è tratto il film) e si sofferma tantissimo sul rapporto tra lui e il padre senza mai parlarne davvero. Sono fatti ed eventi uno in fila all’altro, non ci sono mai considerazioni o pontificazioni, siamo noi a capire tutto da come il padre guarda il figlio, da come gli fa passare molte cose e da come invece lo costringe a fare altre cose.

Di nuovo (sempre lì torniamo) è l’eccezionale Javier Camara che si prende l’incombenza di raccontare tutto questo con gli sguardi e la postura. Nelle prime scene il figlio (grande) torna in Colombia per il pensionamento del padre, arriva nella grande sala mentre sono tutti seduti e stanno parlando di lui, lo stesso il padre quando lo vede scherza con lui a distanza. In quel movimento e in quella giovialità c’è un mondo. Uno che si ritrova nei percorsi in macchina da piccoli, o anche nelle tragedie domestiche.

Capace di farsi egli stesso strumento di nostalgia, Camara assume la postura e i movimenti degli uomini di altri tempi. Cammina o si siede a gambe larghe come non si fa più, ricorda con la sua figura (e quel taglio di capelli) un altro mondo. È in buona sostanza l’incarnazione di tutti i padri o nonni (a seconda delle generazioni cui si appartiene), simbolo di un altro mondo e un altro modo di essere uomini. Ricco e benestante (molto ricco e molto benestante, considerato il paese in cui vivono) interessato alla salute di tutti e con una schiena ben poco dritta, Gomez aggiusta tutto per i propri figli, stravede per le ragazze e si porta sempre dietro l’unico maschio.
Alla fine non capiamo molto delle ragioni specifiche per cui questa figura sia così importante da meritare un film, capiamo solo che era buonissimo (la cosa probabilmente meno vera di tutte). Ma abbiamo perfettamente chiaro cosa provi un padre per un figlio.

Perché La nostra storia è un raro caso di film dirottato dal suo protagonista. È un po’ troppo lungo, non sa scegliere quali eventi comprimere e quali raccontare a fondo, vuole mettere troppa carne al fuoco e beneficerebbe di mezz’ora di meno. Ma Camara sposta sempre l’asse dalla storia e dalla politica al personale e all’umano, solo e unicamente con la forza di un’interpretazione con cui non si può non empatizzare. Uno spettacolo.

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