La nave sepolta, la recensione

Diretto da Simon Stone e scritto da Moira Buffino (che adatta il romanzo omonimo di John Preston), La nave sepolta è un bellissimo viaggio tra le pieghe del tempo, della vita e della morte; prendendo le mosse da quell’iniziale sensazione, il film si costruisce tutto sull’idea che il vero tempo è quello che non può essere misurato.

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Alla viglia della seconda guerra mondiale, l’aristocratica vedova Edith Pretty (Carey Mulligan) assume lo studioso e scavatore Basil Brown (Ralph Fiennes) per eseguire degli scavi archeologici nella sua proprietà a Ipswich, fuori Londra. Si tratta di grandi e misteriosi dossi in mezzo a un grande campo: Edith non sa di cosa si tratti ma ha come la sensazione che nello scavare verrà scoperto qualcosa di incommensurabile valore. Diretto da Simon Stone e scritto da Moira Buffino (che adatta il romanzo omonimo di John Preston), La nave sepolta è un bellissimo viaggio tra le pieghe del tempo, della vita e della morte; prendendo le mosse da quell’iniziale sensazione, il film si costruisce tutto sull’idea che il vero tempo è quello che non può essere misurato: il tempo di una vita e insieme quello dell’umanità tutta, un tempo che è più di una semplice somma e che tende invece all’infinito.

Per tutta la prima parte La nave sepolta sembra quasi voler nascondere quell’idea allo spettatore. I malesseri emotivi dei singoli personaggi, insoddisfatti del presente o bloccati da un dolore che viene dal passato, sembrano rispecchiarsi quasi troppo perfettamente nella metafora di una nave da riportare alla luce. Ci si chiede, durante la visione, se ci sia davvero dell’altro o se si tratti solo di un palese accostamento, di una retorica troppo banale. Eppure, il film continua ostinatamente a scavare, letteralmente (come scava senza sosta Basil) ed emotivamente (come fa Edith, che deve accettare una malattia e il distacco dal figlio). Senza fretta di spiegare tutto subito o di mettere in campo al più presto la sua complessità La nave sepolta, rimuovendo strati su strati di terra e secoli di storia arriva mano a mano a scoperchiare veramente, insieme alla nave stessa, il significato della sua indagine, rivelando le sue scelte solo nel finale: ed è proprio così facendo che ne guadagna in credibilità, facendo risuonare più profondamente il suo tema. Un equilibrio precario (e rischioso), che qui si rivela perfetto.

Durante il percorso infatti il focus sui protagonisti è sempre altalenante: dopo la costruzione delle premesse mettiamo da parte per un po’ Basil ed Edith ed arrivano nuovi personaggi come la giovane archeologa Peggy (Lily James), piena di dubbi sulla sua vita. Questa scelta, all’inizio un po’ spaesante, sembra spostare troppo repentinamente l’attenzione dalla vicenda fino a quel momento raccontata: tuttavia sono proprio questi nuovi personaggi che, con i loro drammi, faranno risuonare più fortemente i vecchi dubbi e trascinano con sé nuove dimensioni del tempo: tra questi, il tempo della Storia - che se prima era solo un aereo che sorvolava il cielo, ora entra letteralmente nel loro presente.

Con una regia vicinissima agli interpreti, fatta di riprese a spalla, spesso dal basso, quasi a determinarne il senso di confusione, o al contrario composta di campi lunghissimi in cui l’attore si perde nello spazio, Simon Stone mette in piedi coerentemente la sua idea di rappresentazione visiva. La regia si intensifica poi grazie a una fotografia sempre naturalistica e alla cura degli ambienti, delle scenografie, restituendo fortemente quel senso della terra, della natura (tra piogge torrenziali e splendenti raggi di sole) che chiude il cerchio del tempo.

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