La recensione di La Morsure, il film francese in concorso al festival di Locarno
Se non ci fosse il titolo a promettere un bel morso non potremmo mai essere sicuri che questo arrivi.
La Morsure è tutto giocato su un’impressione di orrore e non sull’orrore effettivo, sulle immagini dell’orrore e non sui suoi esiti, sul fatto cioè che i personaggi dicono di avere visioni, dicono di poter predire il futuro e dicono di essere vampiri, non sul dimostrare che questo sia vero (o quasi). E va bene così, perché l’impressione di orrore è tutto quello che conta nell’horror. Questa non è una storia di vittime e mostri che le inseguono (anzi) ma una da
Tim Burton, in cui la solitudine e i sospiri d’amore si sovrappongono e un’estetica che fonde
Argento e l’horror britannico anni ‘70 (recentemente
tornate di moda) è usata per una trama dai toni dark, in cui sentirsi diversi dal resto del mondo è un modo per enfatizzare la sensibilità e la sete d’amore non saziata di alcune adolescenti.
La trama mette due ragazze che vivono in un convento cattolico negli anni ‘60 francesi in condizione di scappare per una serata fuori che sono convinte sarà la loro ultima sulla Terra. Almeno così dicono le premonizioni. Scappano dal rigore, dalla costrizione e dalla repressione per accedere ad un mondo più libero. Alla festa in maschera cui approdano in realtà scoprono il gotico (come genere narrativo e non come stile architettonico), qualche uomo maldestro e trovano un vampiro adolescente un po’ sfigato, il cui carattere dark sta tutto nel fatto che può specchiarsi ma non vuole farlo perché non gli piace quello che è. Siamo dalle parti dell’elevated horror ma con atmosfere tutte europee e quindi un modo di ragionare in cui l’azione è funzionale ai personaggi e non viceversa come nel cinema americano.
In questo senso
La Morsure centra tutto il centrabile, anche quando esagera e sfocia quasi nel videoclip dei Cure. Perché come i videoclip ragiona per immagini, a partire dal vampiro adolescente, visivamente eccezionale, una spalla perfetta per le due protagoniste e la loro rabbia giovane mescolata a desiderio in modi che impediscono di capire quali delle loro azioni siano motivate dalla prima e quali dal secondo.
Romain de Saint-Blanquat è uno scenografo qui all’esordio nella regia e giustamente gira un film d‘ambientazioni, fonde benissimo l’immaginario gotico tradizionale e i suoi luoghi comuni (incluse croci, chiesa e questo vampiro che alla festa in maschera è vestito come lo stereotipo di un vampiro) e quello dark anni ‘80 (fatto di trucco nero intorno agli occhi sbafato dalle lacrime, sentimenti intensi e delicati in contesti mortiferi…), creando un ibrido che non solo è ben accoppiato al teen movie ma parla di qualcosa di eterno e negando tutto del teen movie americano raggiunge lo stesso gli obiettivi cruciali del genere: il cambiamento, l’attesa di un domani pieno di promesse, il desiderio di provare qualcosa di intenso in un mondo che invece pare negarlo.