La mia vita è uno zoo, la recensione
Croce e delizia di se stesso l'ultimo film di Cameron Crowe vive di momenti altissimi e di abissi di terribile semplicismo...
Per quanto possa andare male, un film di Cameron Crowe avrà sempre le musiche. In questo caso il passo avanti è che ci sono anche le immagini.
Accade così che nei momenti migliori di La mia vita è uno zoo, le sagome contornate di luce e il bagliore del pulviscolo che si agita nell'aria di campagna si sposano alla perfezione con la rarefazione dei suoni islandesi di sottofondo. Insieme quest'accoppiata riesce a parlare benissimo di quel vuoto esistenziale di una vita in cambiamento, presa nell'attimo in cui ancora non è mutata ma ci sta provando. Ci sta provando davvero!
La sua odissea personale vive di momenti altissimi e al limite del commovente (sempre grazie alla coppia di fatto Jonsi/Prieto) ma anche di incredibili tracolli. Si tratta di abissi scavati dal lato oscuro e ruffiano del regista e riempiti con teneri bambini dalla risposta pronta e dalla frase giusta al momento giusto buona per intenerire, fratelli dal buon cuore e dalle espressioni assolutorie, sottotrame banali e trattate con poco riguardo (quella tra i due ragazzi) e con una ricerca artificiosa di suspense (l'albero, l'ispezione, il leone) che sa solo di maldestro.
Poteva essere insomma un film particolare e sospeso in un vuoto pieno di idee e potenza espressiva La mia vita è uno zoo, invece è un film che cerca in tutti i modi di essere canonico, di ricalcare strutture, racconti e dinamiche già note e metabolizzate dal pubblico. Una storia vera fatta rientrare a forza nella tipica struttura a tre atti e nelle regole di linguaggio del cinema americano, quando invece sembra nata per essere ondivaga, vivere di non detti e volti nel sole.