La marcia dei pinguini

Un viaggio nei luoghi più freddi della terra, seguendo il percorso che ogni anno fanno migliaia di pinguini. Un documentario affascinante e coinvolgente, rovinato da una discutibilissima edizione italiana…

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Il risultato de La marcia dei pinguini negli Stati Uniti ha dell’incredibile. Quasi 80 milioni, un risultato che significa il secondo documentario di maggiore successo di tutti i tempi, dietro al colossale Michael Moore di Fahrenheit 9/11. Ma questo caso è forse più sorprendente, considerando che non si parla di recente (e drammatica) storia americana/mondiale, ma di un gruppo di animali e della loro lotta per sopravvivere.

Come spiegare allora questo inaspettato trionfo? Vediamo di fare chiarezza. Sicuramente, la voce off che accompagna la narrazione aiuta molto la commercializzazione del prodotto, contribuendo a chiarire (ma non sempre, alcuni aspetti della marcia rimangono infatti un po’ oscuri) la vicenda e aumentando il pathos per lo spettatore. Scelta intelligente, insomma, e assolutamente non criticabile, considerando che contribuisce a rendere il racconto più coinvolgente.
Inoltre, i pregi dell’opera sono innegabili. Le immagini meravigliose sono diverse e ci mostrano una natura selvaggia e ostile, che rende la lotta di questi animali ancora più drammatica. I momenti toccanti sono diversi, tra cui è impossibile non segnalare una mamma disperata per la morte del suo piccolo che cerca di impossessarsi di un altro giovane esemplare.
In effetti, una scelta coraggiosa è quella di non nascondere mai la morte. In ogni tappa del viaggio, infatti, non mancano episodi dolorosi, che impediscono alla pellicola di scivolare nel dolciastro e nel disneyano.
Certo, non mancano elementi non sempre perfettamente intonati alla vicenda (alcune musiche sono fuori luogo) e a tratti si scivola in una certa indulgenza da documentario televisivo. Ma in sostanza, un film decisamente consigliabile.

In versione originale, però. I francesi, infatti si affidano ad attori come Charles Berling e Romane Bohringer. Noi abbiamo Fiorello, che avrebbe anche potuto funzionare, se qualcuno non avesse deciso che il popolare showman fosse in grado di interpretare tutte le voci narranti, femmine e piccoli compresi. Il risultato? Battute fuori luogo e che sembrano chiaramente create ex novo per la versione italiana. I piccoli, che sembrano dei cretini. E a tratti la voce non sembra avere il giusto pathos, preferendo scivolare su un’ironia fuori luogo.
Ora, se tutto questo, come capita anche per i film d’animazione, aiutasse il marketing della pellicola, almeno avrebbe un senso. Ma Fiorello non ha assolutamente partecipato alla conferenza stampa del documentario, in cui era invece presente il regista. Insomma, spesa non indifferente (sicuramente superiore a quella di un bravo doppiatore), risultato artistico deludente, vantaggi commerciali inesistenti o quasi. Geniale…

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