La Macchinazione, la recensione

Il film più vicino ai fatti, visto il suo autore, ma anche uno di quelli messi in scena con meno riguardo al cinema, La Macchinazione è inqualificabile

Critico e giornalista cinematografico


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Non ha bisogno di esibire patenti di aderenza ai fatti David Grieco. Assistente alla regia di Pasolini ma anche attore in Teorema, i fatti li ha visti con i suoi occhi, le testimonianze le ha raccolte con le sue orecchie e ora (in seguito alla delusione nei riguardi del Pasolini di Abel Ferrara), ha deciso di raccontarla lui la storia degli ultimi giorni di Pier Paolo Pasolini. Il risultato è La Macchinazione, un film in cui le cose più giuste hanno il sapore più sbagliato.

Non c’è da contestare la ricostruzione fatta da Grieco dei fatti che hanno preceduto la morte di Pasolini, la sua posizione all’interno della storia è tale da legittimare a priori il suo punto di vista e del resto ha una chiara idea di alleanze, motivazioni, colpevoli, inganni e mandanti.
Semmai da contestare (e non poco!) è il suo punto di vista sul cinema. La Macchinazione è un film che sembra non sentire il concetto di ridicolo. A partire dal protagonista, Massimo Ranieri, molto somigliante al suo personaggio in volto (motivo per il quale lo stesso Pasolini aveva espresso il desiderio che se mai qualcuno avesse dovuto interpretarlo, sarebbe dovuto essere proprio Ranieri) ma completamente diverso nella voce (per giunta non rinuncia ad una cadenza campana) e nel fisico, cosa incredibile se si considera che una caratteristica iconica che tutti hanno presente di Pasolini è la sua estrema magrezza…).

A cascata tutto in La Macchinazione ha il sapore della pessima messa in scena: una certa macchinosità nel procedere, la fatica delle battute, l’agiografia spinta, il sentimentalismo molto dozzinale tra Pasolini e la madre, per non dire ancora di una recitazione in tantissimi casi diretta in maniera molto meno che eccepibile o ancora un reparto scenografia e costumi così pulito ed addomesticato da sembrare una messa in scena teatrale.

Eppure se ancora il film cerca di difendersi come può mentre rimane aderente ai fatti (nonostante una tendenza evidente a calcare la mano sul complotto), sconfina nel grottesco senza pietà quando azzarda qualche forzatura simbolica.
In uno dei momenti più imbarazzanti Pasolini sta camminando per strada con un giornalista francese e viene colto da una specie di vertigine. Si tratta di una visione. Davanti a sè osserva persone in abbigliamenti moderni con smartphone alla mano e dietro di loro, come i numeri di Matrix, ci sono i dati della borsa che scorrono. Questi avanzano come Il Quarto Stato solo osservando i cellulari. Con buona probabilità è un modo di affermare la capacità predittiva riguardo alla degenerazione della nostra società di Pasolini. Forse la scelta peggiore per comunicare il concetto più arbitrario in assoluto.

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