La macchina delle immagini di Alfredo C., la recensione

Un'opera filologica diventa un documentario pieno di velleità che usa un ritrovamento per costruire un castello di riflessioni alla buona

Critico e giornalista cinematografico


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Recensione di La macchina delle immagini di Alfredo C., al cinema dal 7 marzo

C’è un ritrovamento al centro di La macchina delle immagini di Alfredo C., ovvero l’archivio di Alfredo C., operatore cinematografico nell’Italia fascista, trasferitosi in Albania e poi rimasto lì quando l’8 settembre del ‘43 le alleanze della seconda guerra mondiale cambiano tutto. In Albania Alfredo vive e filma a lungo. L’archivio è quindi composto di quel che aveva girato in Italia e quel che aveva girato in Albania. È un’operazione di filologia seria e importante quella quindi che sta alla base del documentario, una documentazione prima sconosciuta e ora disponibile. Roland Sejko non ne fa però un documentario didattico o illustrativo, quanto uno meditativo.

Il proposito nefasto è messo in piedi innanzitutto inserendo dei segmenti di finzione, ampliando la storia di Alfredo C., con la recitazione dell’attore Piero De Silva nei panni dello stesso Alfredo nell’atto di mettere mano al montaggio delle sue immagini. Soprattutto De Silva parla fuori campo, racconta, contestualizza e accompagna le immagini in uno scorrere che è tutto tranne che appassionante o significativo. Anzi è la ripetizione dei più pedissequi concetti alla base della cinefilia accademica.

Come sia possibile pensare un uso poetico ed intellettuale al tempo stesso del materiale di repertorio dopo che Pietro Marcello ha mostrato i suoi film? Come è possibile ancora credere che un testo di ampie pretese e rituali concetti cinefili sul guardare e riprendere, testimoniare e imprimere su pellicola possano dar senso alle immagini da sole?

La macchina della immagini di Alfredo C. su un tappeto di materiale di repertorio di puro mestiere, riprese funzionali, materiale inquadrato correttamente con anche qualche scelta formale gustosa ma mai invadente e mai estetizzante, costruisce il contrario, una serie di riflessioni pompose e velleitarie che quelle immagini vorrebbero elevarle, ma ne finiscono umiliate, perché mai all’altezza. Inutile dire che anche solo un montaggio muto di quel materiale sarebbe stato meglio della pantomima banale e tronfia di questo documentario che nel riportare una scoperta filologica fa di tutto per mettere se stesso e la sua capacità di lettura in primo piano. E questo senza che suddetta capacità abbia i muscoli per sostenere quel posizionamento.

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