La folle vita, la recensione

Partendo da una storia comune di demenza senile, La folle vita trasforma il genere in una ricerca di vita e non in fuga dalla morte

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione del film passato a Cannes ACID, La folle vita, in uscita il 29 giugno nelle sale italiane

Quelle lenzuola dalle trame vivaci che diventano anche tappezzeria coordinata per la testata del letto, che poi diventano anche copertura di un’abat-jour e poi ancora rivestimento dei divani e sempre di più ovunque in casa costruiscono un’unica grande copertura a tema forestale, parte come regalo della mamma al figlio, accoppiato e in procinto di cercare di avere un figlio a sua volta dalla sua compagna. Il regalo all’inizio sono solo le lenzuola, poi a mano a mano che la mamma comincia a perdere colpi ed essere affetta da una forma sempre più grave di demenza semantica, questi motivi invadono la casa, sono ovunque trasformano tutto in un’estensione di lei. 

Se c’è un ambito in cui La folle vita non vuole essere realistico, uno solo, è proprio quello dei costumi e della scenografia. Più la salute della mamma condiziona la vita del figlio e i suoi rapporti, più il suo regalo così vistoso si propaga. Più la coppia frequenta dottori (prima una ginecologa per sé, poi i geriatri e gli psichiatri per la madre) più questo è filmato in ambienti con colori decisi abbinati ai loro vestiti, tutti uguali, tutti un po’ ridicoli in balia delle indicazioni mediche. Non ci sono dubbi che questo sia un film che racconta qualcosa di molto realistico per suggerire qualcosa di molto più astratto, un approccio alla vita, una condizione sociale (svelata dai problemi nel fare figli e le molte indecisioni) e infine degli impasse.

Ha il sapore dell’auto-fiction mediata dal cinema La folle vita e arriva buon ultimo a fare un racconto di come la demenza senile si abbatta sulle vite di tutte le persone che circondano il malato. Tuttavia lo fa con un piglio di eccezionale coerenza e straordinaria sorpresa. C’è una specie di scambio in stile Ladyhawke lungo il film. La nonna regredisce allo stadio infantile, finendo per dipendere da una coppia che, proprio per la sua malattia, temporaneamente rinuncia ad avere un figlio. Sempre più una bambina e poi proprio in una scena con pannolone in giardino, una neonata, lei è lo spettro del cambiamento che questa coppia non riesce ad affrontare, e regredendo attende di darsi il cambio con un bambino vero, come se i due sperimentassero con lei le fatiche e i problemi di essere genitori prima di esserlo davvero.

Raphael Balboni e Ann Sirot però in questo film inseriscono uno spirito e soprattutto una risoluzione tra il sognante, l’auspicabile e lo sguardo rivolto al domani, che da soli aprono a toni inediti per il genere. L’operazione è di puro cinema: unire un finale inaspettatamente positivo a un ragionamento non per questo irreale. Ispirare e sollevare più che documentare, senza rinunciare a personaggi e situazioni concrete. Là dove il cinema di malattia e senilità si concentra sulla devastazione umana e sulla fine della vita incipiente, sul termine della coscienza e la disperazione, La folle vita è invece incredibilmente costruttivo. Il vero arco narrativo lo possiede il figlio (che deve capire come avere a che fare con la situazione) e proprio guardando lui tutta la storia trasforma un evento che associamo da sempre al decadimento, in una trama di rinascita e quasi in un coming of age, in cui il passaggio da un’età all’altra è un mutamento di stato (da autonoma a dipendente, da madre a figlia) che porta consapevolezze nuove, in cui trovare nuovi equilibri, imparare a saper vivere di nuovo con tutto quello che comporta e non attendere la morte e basta.

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