La fine della ragione, la recensione [2]

Abbiamo recensito per voi La fine della ragione, il fumetto di sfogo politico e sociale di Roberto Recchioni

Alpinista, insegnante di Lettere, appassionato di quasi ogni forma di narrazione. Legge e mangia di tutto. Bravissimo a fare il risotto. Fa il pesto col mortaio, ora.


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Roberto Recchioni scrive e disegna La fine della ragione (qui trovate la nostra prima recensione), e la pressoché neonata Feltrinelli Comics lo pubblica come una bandiera. Ci mancherebbe. L'autore è importantissimo e di grande richiamo, l'argomento è di serietà notevole. Si parla dell'arrivo dell'oscurantismo, del trionfo dell'irrazionale, dell'imposizione futura di antiscientismo e rimedi della nonna a sostituire la medicina tradizionale. Si parla di un nuovo medioevo che si presenta alla nostra porta oggi, non domani, i cui semi sono già qui e stanno già germogliando. Perché La fine della ragione è un fumetto politico. Eminentemente politico. In quanto tale è una promanazione diretta dal cuore di Recchioni, che si mette a nudo in maniera immediata e senza compromessi, in modo estremamente combattivo, come già suggerisce la doppia copertina del volume, che lo ritrae vestito da samurai, pronto ad affrontare il vuoto di un paesaggio apocalittico.

La fine della ragione è un manifesto che vuole illustrare, tramite una breve fiaba che ci piacerebbe poter definire distopica, le preoccupazioni dell'autore. Urla, questo volume. Urla contro avversari politici ben precisi, anche se non direttamente. O, quantomeno, contro la visione che Recchioni ha di una importante componente politica e di tanti, preoccupanti, fenomeni di comunicazione e di incultura che diversi commentatori le imputano di sostenere e avallare. Urla contro chi si affida alla rete invece che ai libri, urla contro gli antivaccinisti, urla contro chi protesta senza sapere, contro chi se la prende con gli esperimenti del Gran Sasso, contro il tracotante populismo di Le Iene, contro chi sfrutta la pancia della gente per creare paura e per risolvere i suoi timori con la negazione delle responsabilità. E tanto altro ancora.

Per affrontare in questo modo la contemporaneità e la politica, un fumettista ha certamente bisogno di grande coraggio. E non è mancato, a Recchioni. Ce n'è bisogno perché, come diceva Michael Jordan, anche i repubblicani comprano le scarpe. Ebbene, anche gli elettori di certi leggono fumetti. Anche se Recchioni è probabilmente convinto di no. Difficilmente, però, leggono i suoi di fumetti, dato che l'autore romano non fa mai mistero di quel che pensa e le sue convinzioni sono ben note a chi lo segue sui social media. Tuttavia, un conto è dire la propria in rete e un conto è affidare il proprio diniego e disgusto politico e sociale a un'opera d'arte. Oltre che coraggio, ci vuole molta sensibilità per farlo. E ci vuole un'idea forte. Queste ultime due sono, ahinoi, componenti che non ci riesce di vedere in La fine della ragione.

La sensibilità servirebbe all'autore per entrare in contatto con il suo pubblico a un livello più ampio. Servirebbe a emozionare a un livello più generico, a riportare il particolare al generale, a parlare di temi più ampi e più umani. Ogni comunicazione politica ben fatta ha una componente di sensibilità, tende a entrare in contatto con l'interlocutore, a creare una comprensione istintiva, a trovare nel messaggio quel che c'è di universale, quel che ha l'opportunità di arrivare a tutti (persino agli avversari politici, a volte) per sottolineare la propria importanza, per creare un contatto. Ma a Recchioni non interessa, forse, essere sensibile.

Sin da subito, è chiaro che è la rabbia, accompagnata dall'indignazione, l'unica chiave di questo volume. Recchioni non ha alcuna intenzione di avvicinare, di toccare i cuori e gli animi, di invitare alla riflessione. C'è tanta amarezza in questo fumetto e c'è tanta voglia di gridare, come in una vecchia canzone di Daniele Silvestri. C'è una scarsa cura esibita anche nella scelta grafica delle pagine, che volutamente assomigliano a quelle di un quaderno, mimesi di un'opera realizzata con mezzi di fortuna, in tempi di crisi e censura, su un anonimo e insospettabile quadernetto a righe.

La fine della ragione è combattivo, dicevamo, e barricadero, come le ultime volontà di un combattente disperato e indomito, ma un'idea forte rimarrebbe comunque necessaria, anche bandita la sensibilità per scelta semantica. E invece non riusciamo a trovarla. Non c'è a livello narrativo, dove ci troviamo a seguire una vicenda scarna, una fiaba scheletrica e senza grande originalità, che non serve a veicolare il messaggio, ma solo a farsi commento delle parole di Recchioni. Accompagnano infatti le tavole tante parole, che finiscono per essere le vere depositarie del pensiero dell'autore e che raccontano molto più di quanto non facciano le immagini e i personaggi, anche se prendono meno spazio. Hanno un peso specifico preoccupantemente superiore a quello del fumetto vero e proprio, da cui finiscono per apparire quasi separate. La storia di una madre (tema carissimo all'autore) che decide di ribellarsi alla società oscurantista per salvare la propria figlia e rivolgersi alla scienza per salvarla, risulta debole, dimenticabile, poco rilevante. Coperta dalle grida di rabbia e di dolore per la "fine della ragione" che fa da titolo all'opera.

Un'opera che, in fin dei conti, non è che una confessione incazzata di cose già note, che ti chiede di essere d'accordo e ti dice cose che già sai, se volevi saperle, che non ti interessano se hai una posizione diversa, perché non ci credi. Difficile risultare davvero interessanti, soprattutto senza toccare mai il cuore, senza appassionare a una vicenda troppo breve e schematica e, aggravante inaspettata, senza riuscire a creare un'atmosfera generale dal punto di vista grafico.

La fine della ragione risulta un collage di tanti stili, che si manifesta soprattutto nella serie di vignette collaterali alla breve trama principale, in cui emergono tante e disorientanti ispirazioni. C'è un po' di vignetta satirica, ci sono citazioni dal Cinema, fa capolino Go Nagai (il parallelo più azzeccato del volume, quello con la caccia alle streghe di Devilman) in una sarabanda di suggerimenti che purtroppo rende il risultato finale ancora più annacquato. L'idea forte in cui speravamo in termini di trama, manca anche nelle immagini: senza, il volume sembra un elenco episodico, privo di coesione, e, di conseguenza, di forza comunicativa, perso tra l'altro in un compromesso di toni, tra l'ironia tagliente e la tragicommedia buia e oscura.

Per apprezzare fino in fondo La fine della ragione, ci pare, ci sono due condizioni necessarie: essere dei cultori della personalità di Recchioni e rispondere alla sua adunata, impazienti di sapere quel che lui ha da dire sulla nostra società, sulla politica del nostro Paese e sui nostri tempi, come fedeli soldati che vedono nel loro generale un faro illuminante e l'ultima guida possibile verso la salvezza, oppure essere d'accordo con lui e avere voglia di sentirsi dare una pacca sulla spalla, di ascoltare una voce che ci dica di avere ragione, che ci rassicuri sulle nostre posizioni. In assenza dell'una o dell'altra, quest'opera ci pare traballante e un po' superficiale. Soprattutto perché è dell'opera di un grande autore che stiamo parlando. Un'occasione mancata, forse per la fretta, forse per la troppa voglia di gridare.

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