La Fine del Mondo, la recensione

Abbiamo visto in anteprima The World's End, ultimo film della trilogia del Cornetto di Edgar Wright con Simon Pegg e Nick Frost...

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Ultimo giorno di liceo: i libri gettati nel cassonetto, il senso di libertà totale che sfiora l’onnipotenza, la perfezione dei sogni ancora intatti. Per Gary King (Simon Pegg), tossicodipendente in riabilitazione, quel giorno è rimasto impresso nella memoria come il migliore della sua vita.

Erano gli anni Novanta e Gary era il leader indiscusso di Newton Haven: un James Dean punk, casinaro e playboy, che calcava a grandi passi la scena di un insignificante paesino della campagna inglese. Insieme al migliore amico Andrew (Nick Frost) e agli altri membri della “banda”, Oliver (Martin Freeman), Steven (Paddy Considine) e Peter (Eddie Marsan), aveva deciso di celebrare la fine della scuola cercando di portare a termine il Golden Mile: un percorso a tappe, chiaramente alcoliche, nei 12 pub del paese. Una pinta dopo l’altra, i ragazzi si erano trascinati di locale in locale, collezionando figuracce e grandi risate, ma avevano abbandonato poco prima del dodicesimo pub: “La fine del mondo”, appunto.

Quel mancato finale diventa l’ossessione di Gary. Indossando lo stesso cappotto di pelle e guidando la stessa macchina arrugginita di vent’anni prima, bussa alla porta dei vecchi amici e li convince a tornare al paese per concludere il tour. Tutti accettano: non vedono l’ora di lasciare la monotonia della routine quotidiana nella capitale per tornare ad assaporare quel momento di felicità e follia, anche se solo per una notte.

Ben presto, però, si rendono conto di quanto siano assurdi e fuori luogo. Gary è un fantasma di se stesso a diciott’anni, un Peter Pan cocainomane intrappolato in un ricordo idealizzato, che trascina i molto poco entusiasti compagni in pub resi anonimi dall’arrivo della modernità. Durante il percorso, i cinque s’imbattono in vecchie conoscenze: le compagne di scuola, sempre bellissime, il bullo del quartiere, l’anziano lunatico, l’amico barista... Volti ed espressioni ancora uguali, troppo uguali, ma allo stesso tempo fredde e inespressive. Tanto da diventare inquietanti. Ovviamente, non è l’effetto dell’alcool: l’intero paese è stato occupato da forze aliene, che hanno sostituito gli abitanti con robot assassini dal denso sangue blu. Quello che sembrava un omaggio ai Blues Brothers si trasforma quindi in un incubo fantascientifico nel quale, come da tradizione wrightiana, i protagonisti rimangono invischiati in estenuanti combattimenti a mani nude e folli corse a ostacoli nei parchi. L’obiettivo, infatti, non è solo sopravvivere, ma anche portare a termine il Golden Mile.

Un’avventura fantascientifica intrisa di cultura pop (con riferimenti al LEGO e a The Matrix) e di affezionati omaggi a un’adolescenza vissuta nei Naughties (Blur, Primal Scream e Pulp scandiscono le sbronze), che permette a Gary di riacquistare il ruolo di leader e fa riscoprire agli altri l’importanza della fiducia e del perdono. La presenza di altri tre personaggi principali, incluso un attore del calibro di Freeman (star di Lo Hobbit e acclamatissimo Watson in una delle recenti versioni di Sherlock Holmes) spezza infatti il binomio Pegg-Frost e dà spazio a più profonde e articolate riflessioni sul concetto di amicizia.

Sicuramente il più esilarante dei tre film della Trilogia del Cornetto, “La fine del mondo” risulta forse il meno riuscito dal punto di vista della narrazione. Ci sono nodi irrisolti e conti che non tornano nelle vicende dei personaggi, gli scontri con i robot sono eccessivamente lunghi e ripetitivi e gli effetti speciali a volte non funzionano. Rimane il fatto, inoltre, che l’intero film è una celebrazione del binge drinking: una pratica radicata nella cultura anglosassone, che consiste nello sfondarsi di alcool a stomaco vuoto ogni venerdì e sabato sera. Un’abitudine i cui effetti fanno sorridere, ma che è in realtà un problema sociale devastante.
Interessantissimo e inaspettato, invece, lo sviluppo conclusivo. Un po’ come nei precedenti “Hot Fuzz” e “L’alba dei morti dementi”, Wright e Pegg ritornano sul brainwashing e sul significato dell’esistenza in una realtà fittizia, e riprendono temi e riferimenti che sembrano usciti dal manuale di un teorico conspirazionista: la tecnologia è uno strumento di controllo e il cibo processato è il nemico assoluto. Tanto che anche il famoso Cornetto, che dà il nome alla trilogia, non è più solo un oggetto di scena (e un’ottima cura per il dopo sbronza, come sostiene Wright), ma il velo di Maya lacerato con dolore, il simbolo di una società artificiale e corrotta, ma a tratti ancora invocata con nostalgia.

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