La figlia oscura - The Lost Daughter, la recensione | Venezia 78

Maggie Gyllenhaal debutta alla regia con The Lost Daughter: un ritratto al femminile che sfrutta al meglio il talento delle sue protagoniste per offrire una riflessione realistica ed emozionante sulla maternità

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La recensione di La figlia oscura - The Lost Daughter, al cinema dal 7 aprile 2022

Maggie Gyllenhaal debutta alla regia con The Lost Daughter, film tratto dal romanzo La figlia oscura scritto da Elena Ferrante, e può contare su un cast davvero stellare che permette di mettere in secondo piano i passaggi meno riusciti dell'adattamento per il grande schermo grazie alle loro interpretazioni.
A cimentarsi con il ruolo della protagonista Leda nelle varie fasi della sua vita sono infatti Olivia Colman e Jessie Buckley, ma accanto a loro sono sfruttati al meglio anche Dakota Johnson, Ed Harris, Peter Sarsgaard e la rivelazione di Normal People, Paul Mescal.

La storia prende il via quando la professoressa universitaria Leda inizia la sua vacanza al mare, imbattendosi sulla spiaggia in una famiglia numerosa che comprende anche la giovane madre Nina (Johnson), alle prese con una figlia che le crea qualche problema e un matrimonio non particolarmente felice. Osservare quanto accade intorno a lei porta alla luce nella mente di Leda ricordi e rimpianti legati alle difficoltà avute in famiglia quando era una giovane che stava cercando di farsi strada in campo universitario e si ritrovava spesso sola con le sue due bambine, Bianca e Martha, mentre il marito era distante per lavoro.

Maggie Gyllenhaal riesce con bravura a sfruttare l'idea di mostrare una donna che si riflette, nonostante l'esperienza molto diversa, con una sconosciuta con cui ha più di un punto in comune, ritrovandosi a rivivere le emozioni e l'esperienza ormai appartenenti a un passato lontano, situazione che le causa non pochi momenti di crisi e attimi di sconforto. L'attrice ha firmato anche la sceneggiatura trovando il modo di delineare anche i personaggi secondari dando loro spessore e sfumature e al tempo stesso lasciare la giusta dose di mistero ai membri della famiglia di Nina, intorno ai quali resta in sospeso il mistero riguardante la loro effettiva pericolosità. La fotografia di Hélène Louvert sottolinea bene le ombre e le luci degli spazi in cui si muove Leda, creando il giusto contrasto con i momenti oscuri e i momenti più luminosi di gioia e spensieratezza, sottolineando le tensioni e le aperture all'insegna di una maggiore speranza delle donne al centro del racconto.

A rendere il film coinvolgente ed emozionante è in particolare l'interpretazione di Olivia Colman, davvero impeccabile nel mostrare una donna costantemente divisa tra forza e debolezza e tra desiderio di solitudine e bisogno di entrare in connessione con il prossimo, e di Jessie Buckley che si conferma una delle attrici maggiormente talentuose emerse negli ultimi anni in campo cinematografico con una performance piena di vita, frustrazione, voglia di vivere e sensi di colpa, valorizzata in modo intelligente e attento dalla regia. La versione giovanile di Leda passa infatti dai momenti di felicità accanto alle figlia alla frustrazione nel dover lottare per ritagliarsi il proprio spazio, andando alla ricerca del proprio appagamento personale senza scendere a compromessi, compiendo anche delle scelte molto discutibili. Olivia e Jessie diventano il cuore e il corpo del film, spaziando da scene di rabbia e ribellione a momenti di vulnerabilità e dolcezza, come accade con l'incontro con una coppia di escursionisti, che lasciano quasi spiazzanti e sconcertati. Il confronto tra Buckley e il premio Oscar dimostra così il livello di maturità raggiunto dalla protagonista di A proposito di Rose e Fargo, consolidando il suo nome tra quelli che nei prossimi anni potrebbero dominare il panorama dei premi cinematografici.

Dakota Johnson, dopo il successo commerciale della saga di Cinquanta sfumature, ritorna poi a dimostrare la sua bravura con un ruolo che ne mette in risalto l'espressività e la bellezza, mentre tutti i comprimari di livello - da Ed Harris a Peter Sarsgaard, senza dimenticare Paul Mescal e Oliver Jackson-Cohen o l'italiana Alba Rohrwcher con un piccolo cameo - danno il proprio contributo alla costruzione narrativa composta da vari tasselli, non tutti sviluppati ma ugualmente necessari alla costruzione delle emozioni e di un ritratto al femminile così ricco di sfumature che non cade mai nei facili stereotipi.

The Lost Daughter, accompagnato da una colonna sonora ben ideata da Dickon Hinchliffe e da buone scelte di brani musicali, intreccia a un racconto personale citazioni cinematografiche e letterarie, riuscendo così a mostrare con un buon grado di realismo uno spaccato di vita al femminile che sottolinea senza dare giudizi affrettati o non ponderati come la maternità possa essere vissuta, nonostante l'amore per i propri figli, come un limite alla propria realizzazione personale, e ribadendo l'importanza di prestare attenzione al prossimo per capire se stessi e gli altri.

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