La fiera delle illusioni - Nightmare Alley, la recensione

Il film più magistrale di Guillermo Del Toro, quello in cui il suo controllo è totale e ogni nuances è al suo posto per creare un castello perfetto

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
La recensione di La fiera delle illusioni - Nightmare Alley, al cinema dal 27 gennaio

Sembra un esercizio ombelicale girare un film che parla di come funziona l’illusione della messa in scena e quindi il cinema, e invece non lo è. O almeno non lo è se il cuore del racconto rimaniamo noi, che quella messa in scena la guardiamo, e cosa ci fa la sospensione dell’incredulità mentre ne siamo preda.

La fiera delle illusioni è una storia classica e semplicissima, scritta per calcare con pedissequa convenzionalità gli archi narrativi del cinema statunitense e non stupire nessuno con il suo intreccio di ascese e declini, di animi corrotti dal successo e dalla bramosia. Lo scheletro abituale però stavolta è usato non solo per dire qualcosa ma per mostrarlo e farlo vivere allo spettatore.

L’operazione dietro a La fiera delle illusioni è uno dei migliori studi dei nostri anni sull’attività del pubblico e sulla relazione che stabilisce con le messe in scena. Per farlo il film segue quasi all'esattezza la trama del primo adattamento del romanzo (del 1947) e fa diventare un perfetto Bradley Cooper da facchino del circo un provetto mentalista, qualcuno che è in grado di usare trucchi e raccogliere informazioni per dare l’illusione di avere percezioni e conoscenze impossibili con il solo potere della mente. È un’illusione non diversa dai prestigi dei prestigiatori di Christopher Nolan, e come in quel film la parte di “lavoro”, scalata al successo e rivalità è molto importante. Solo che La fiera delle illusioni sta attento a giocare molto di più esso stesso con la maniera in cui illude il suo pubblico (cioè noi). E lungo tutto il film prima mostra una messa in scena, poi la descrive e poi ne svela la struttura. Fa cioè un lavoro di esposizione delle nuances che abbiamo appena visto e ne dimostra l’importanza nel creare l’illusione.

È una ricostruzione del processo di comprensione inconscio (prima) e conscio (poi) delle immagini e dei racconti, cioè come ne veniamo colpiti a primo impatto (l’illusione) e come ne elaboriamo il senso ad un’analisi più approfondita. Invece che sostenere che le immagini hanno diversi livelli di lettura, Guillermo Del Toro li mette nel suo film, ne fa l’ossatura di una trama da thriller psicologico con soldi, femme fatale, inganni e amori perduti, in quello che molto probabilmente è il suo film più compiuto. Perché se Il labirinto del fauno ha una forza visiva forse impareggiabile per capacità esplosiva, creatività inarrestabile e fotografia di Guillermo Navarro, La fiera delle illusioni è un’operazione meno istintiva e più ragionata, un costrutto dal fascino eccezionale e dalla bellezza stratificata, opera da maestro e non da giovane promessa.

Basti vedere la forza con cui gestisce la sua consueta passione per l’opposizione tra colori caldi e freddi (in Il labirinto del fauno era freddo il mondo vero e caldo quello dei mostri) qui contenuti gli uni dentro gli altri in un gioco di scatole cinesi e continui ribaltamenti, per una storia in cui il più cattivo di tutti è proprio il narratore. Non è un azzardo sostenere che questo film parli di cinema, perché ogni film che parla di qualcuno che mette in scena qualcosa è un film sul cinema, visto che non può evitare di creare senso sulla stessa cosa che fa, ma pochi come questo parlano della ciclicità hollywoodiana (si veda il finale, troncato rispetto a quello del '47 e dieci volte più spietato), sulle ascese e sulle cadute, sull’accontentarsi di qualsiasi cosa e sul demone dello spettacolo, il demone che si impossessa del pubblico (bellissimo come ci introduce i meccanismi del fascino degli attori e dell’accattivarsi il pubblico) e il demone che si impossessa del narratore. Guillermo Del Toro poteva girare 8 e mezzo e invece ha realizzato un film tutto suo che contiene le medesime riflessioni in una cornice (quella sì) personale e riconoscibile, dimostrando che il suo mondo, lo stesso che altrove era sembrato limitato, può contenere di tutto.

Continua a leggere su BadTaste