La fiera delle illusioni - Nightmare Alley, la recensione
Il film più magistrale di Guillermo Del Toro, quello in cui il suo controllo è totale e ogni nuances è al suo posto per creare un castello perfetto
Sembra un esercizio ombelicale girare un film che parla di come funziona l’illusione della messa in scena e quindi il cinema, e invece non lo è. O almeno non lo è se il cuore del racconto rimaniamo noi, che quella messa in scena la guardiamo, e cosa ci fa la sospensione dell’incredulità mentre ne siamo preda.
L’operazione dietro a La fiera delle illusioni è uno dei migliori studi dei nostri anni sull’attività del pubblico e sulla relazione che stabilisce con le messe in scena. Per farlo il film segue quasi all'esattezza la trama del primo adattamento del romanzo (del 1947) e fa diventare un perfetto Bradley Cooper da facchino del circo un provetto mentalista, qualcuno che è in grado di usare trucchi e raccogliere informazioni per dare l’illusione di avere percezioni e conoscenze impossibili con il solo potere della mente. È un’illusione non diversa dai prestigi dei prestigiatori di Christopher Nolan, e come in quel film la parte di “lavoro”, scalata al successo e rivalità è molto importante. Solo che La fiera delle illusioni sta attento a giocare molto di più esso stesso con la maniera in cui illude il suo pubblico (cioè noi). E lungo tutto il film prima mostra una messa in scena, poi la descrive e poi ne svela la struttura. Fa cioè un lavoro di esposizione delle nuances che abbiamo appena visto e ne dimostra l’importanza nel creare l’illusione.
Basti vedere la forza con cui gestisce la sua consueta passione per l’opposizione tra colori caldi e freddi (in Il labirinto del fauno era freddo il mondo vero e caldo quello dei mostri) qui contenuti gli uni dentro gli altri in un gioco di scatole cinesi e continui ribaltamenti, per una storia in cui il più cattivo di tutti è proprio il narratore. Non è un azzardo sostenere che questo film parli di cinema, perché ogni film che parla di qualcuno che mette in scena qualcosa è un film sul cinema, visto che non può evitare di creare senso sulla stessa cosa che fa, ma pochi come questo parlano della ciclicità hollywoodiana (si veda il finale, troncato rispetto a quello del '47 e dieci volte più spietato), sulle ascese e sulle cadute, sull’accontentarsi di qualsiasi cosa e sul demone dello spettacolo, il demone che si impossessa del pubblico (bellissimo come ci introduce i meccanismi del fascino degli attori e dell’accattivarsi il pubblico) e il demone che si impossessa del narratore. Guillermo Del Toro poteva girare 8 e mezzo e invece ha realizzato un film tutto suo che contiene le medesime riflessioni in una cornice (quella sì) personale e riconoscibile, dimostrando che il suo mondo, lo stesso che altrove era sembrato limitato, può contenere di tutto.