La Douleur, la recensione
A Parigi durante l'occupazione nazista una donna attende il marito prigioniero. Al cinema spettatori di La Douleur attendono la fine del film
Cinema di resistenza del fronte interno, Francia occupata dai nazisti e poi liberata, una donna fa di tutto per sapere che fine abbia fatto il marito, prigioniero chissà dove. Le notizie non esistono durante l’occupazione e sono sempre peggiori una volta finita, tornano i soldati dal fronte, poi si scopre l’esistenza dei campi di concentramento e poi ancora arrivano i primi superstiti, di lui nessuna traccia. Intanto noi siamo abbandonati in balìa della voce over di lei, per tutto il film.
Non bastasse un impianto visivo insufficiente, con i remi tirati in barca da quanto rinuncia a qualsiasi influenza sul film, arrivano anche le velleità di poesia esposte e sbattute in faccia a fare del film di Emmanuel Finkiel un supplizio.
Con grande coerenza la musica dà una mano allo strazio del testo e la recitazione anche è adeguatamente pesante, di poche parole, fatta di sguardi carichissimi, espressioni intense in ogni momento e gesti costantemente significativi, indicatori, densi.
Anche una bella scena come la corsa in bici dentro una Parigi vuota e silenziosissima durante un allarme aereo è buttata via quando un film crea un mood così vanitoso e così convinto della propria indescrivibile sensibilità poetica. Invece La Douleur è l’operazione più semplice e pavida in assoluto, l’unione di un periodo storico a cui associamo già il dolore, ad un fatto a cui già associamo lo struggimento (l’attesa di un amato che potrebbe essere morto), alla presa di posizione più condivisa (contro i nazisti e i francesi che collaboravano) assunta come fosse un atto di coraggio e protesta. Un film vigliacco e per giunta pure altezzoso.