La Douleur, la recensione

A Parigi durante l'occupazione nazista una donna attende il marito prigioniero. Al cinema spettatori di La Douleur attendono la fine del film

Critico e giornalista cinematografico


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Un animo sensibilissimo si strugge nell’attesa del ritorno del suo amore e nel dubbio che non sia invece morto. Questa è la sinossi onesta di un film concepito come 50 anni fa e che sarebbe stato difficile da mandare giù anche allora.

Cinema di resistenza del fronte interno, Francia occupata dai nazisti e poi liberata, una donna fa di tutto per sapere che fine abbia fatto il marito, prigioniero chissà dove. Le notizie non esistono durante l’occupazione e sono sempre peggiori una volta finita, tornano i soldati dal fronte, poi si scopre l’esistenza dei campi di concentramento e poi ancora arrivano i primi superstiti, di lui nessuna traccia. Intanto noi siamo abbandonati in balìa della voce over di lei, per tutto il film.

La Douleur è tutto un film sull’uso alla francese della voce over, ovvero quella che parla non sulle immagini ma aiutata dalle immagini, che pontifica con tono letterario senza disdegnare una certa pomposità. Tutto il film è un flusso di coscienza letterario, un lunghissimo monologo che si bea e si sbrodola dell’animo sensibile e colto della protagonista, illustrandolo tramite i suoi raffinati ragionamenti e struggimenti sentimentali.

Non bastasse un impianto visivo insufficiente, con i remi tirati in barca da quanto rinuncia a qualsiasi influenza sul film, arrivano anche le velleità di poesia esposte e sbattute in faccia a fare del film di Emmanuel Finkiel un supplizio.

La posizione che prende il film è la più facile e scontata, per questo la più fastidiosa viste le pretese: è contro il più odioso dei soprusi, ovvero la dominazione nazista e la sua disumana mancanza di pietà. In realtà non gli interessa minimamente il nazismo, non gli interessano la Francia e la Germania o i collaborazionisti e i ribelli, gli interessa solo avere una situazione di indubbia oppressione e attesa in cui mettere in ammollo le proprie metafore. Il fatto che La Douleur sia in costume poi è un plus evidente, perché consente una maggiore astrazione e apertura al romanticismo (e poi non si soffre mai così bene come si soffre in costume).

Con grande coerenza la musica dà una mano allo strazio del testo e la recitazione anche è adeguatamente pesante, di poche parole, fatta di sguardi carichissimi, espressioni intense in ogni momento e gesti costantemente significativi, indicatori, densi.
Anche una bella scena come la corsa in bici dentro una Parigi vuota e silenziosissima durante un allarme aereo è buttata via quando un film crea un mood così vanitoso e così convinto della propria indescrivibile sensibilità poetica. Invece La Douleur è l’operazione più semplice e pavida in assoluto, l’unione di un periodo storico a cui associamo già il dolore, ad un fatto a cui già associamo lo struggimento (l’attesa di un amato che potrebbe essere morto), alla presa di posizione più condivisa (contro i nazisti e i francesi che collaboravano) assunta come fosse un atto di coraggio e protesta. Un film vigliacco e per giunta pure altezzoso.

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