La donna alla finestra, la recensione
A un certo punto Joe Wright non è più capace di trattenere la sua cinefilia entro confini precisi e, complice la sceneggiatura che a un tratto ha voglia di spiegarsi nel modo più veloce possibile, la visione d’insieme si appanna.
Non sorprende, guardando La donna alla finestra di Joe Wright, il fatto che in esso ci si trovi la classicità del cinema, incorporata nel richiamo al suo autore per antonomasia: Alfred Hitchcock. Wright è dopotutto il regista che ha adattato cinematograficamente la cultura più istituzionale con film come Orgoglio e pregiudizio e Anna Karenina, per poi approdare alla grande Storia con L’ora più buia, ritratto di Winston Churchill. Più che un ‘richiamo’, tuttavia, la classicità di La donna alla finestra è un vero e proprio citazionismo esplicito (già soltanto dal titolo si capisce che è una variazione al femminile di La finestra sul cortile) e, sebbene Joe Wright non si nasconda mai dietro un dito (tra spezzoni di film e immagini simbolo della filmografia hitchcockiana), la sua smania cinefila diventa per lui una trappola, una costrizione che si impone (e che impone allo spettatore) proponendola all’inizio ma che poi non persegue, perdendo di vista quell’attento uso dell’ambiguità delle immagini - che pur aveva imbastito - per dedicarsi a giustificazioni razionali e, malauguratamente, parlate (proprio con dei dialoghi, alla fine).
La regia di Wright inizialmente si vota, con grande raffinatezza e trasporto, al racconto visivo di quel delirio. In un moto ondulatorio e psichedelico fatto di inquadrature storte, panning e zommate improvvise, Wright propone la sua convincente atmosfera thriller - ritmata, coinvolgente, ansiogena - giocata tantissimo sulla recitazione, superba, degli attori: oltre ad Amy Adams, Gary Oldman ma soprattutto Julianne Moore danno vita a una nevrosi recitativa collettiva che coglie nel segno. Wright si mostra ottimamente capace di lavorare sui punti di vista, di creare momenti di grande tensione e di giocare sull’empatia con il personaggio principale. Ma è in ultima battuta la galleria hitchcockiana che, racchiusa nel quadro generale di La finestra sul cortile, prende tutta la scena. Ed è qui che il film si inciampa.
A un certo punto Wright non è più capace di trattenere la sua cinefilia entro confini precisi e, complice la sceneggiatura che a un tratto ha voglia di spiegarsi nel modo più veloce possibile, la visione d’insieme si appanna, diventa un manierismo di violenza e di suggestioni che non sviluppano in alcun modo una poetica per immagini. Un pastiche raffazzonato di spunti grafici ormai svuotati di significato, dove le pulsioni dei personaggi sono giustificate e normalizzate. E, così facendo, tutta l’ambiguità precedente non ha più alcun motivo di esistere.
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