La Dea Fortuna, la recensione
Ritornato alle sue atmosfere e ai suoi territori Ozpetek fatica a trovare la rotta migliore per La Dea Fortuna ma quando finalmente la trova il film cambia di colpo
LA DEA FORTUNA, DI FERZAN OZPETEK: LA RECENSIONE
Il cinema italiano da decenni ormai ha rinunciato al racconto delle grandi passioni e delle grandi tragedie. I lacrimoni li ha lasciati alla televisione (con risultati non certo esaltanti) e Ferzan Ozpetek è rimasto l’unico a tentare di mettere in scena il panorama contemporaneo del melodramma. Come, dove e in quali situazioni si annidino le storie dai sentimenti potentissimi nel mondo moderno. Gioca in un campionato nel quale è di fatto da solo. È un pregio ma anche un peso e in La Dea Fortuna questo si sente, perché torna alle sue atmosfere classiche dopo due film in cui aveva vagato senza un vero senso tra Napoli e Istanbul, libero di spaziare su territori che nessuno esplora ma anche in affanno e sempre debitore nei confronti di modelli stranieri.
Tutto si svolge sul terreno in cui Ozpetek si muove meglio, quello delle storie dal taglio ironico e dagli esiti tragici, fatte di grandi gruppi di amici e piccole trame particolari, tavole imbandite con stoviglie dai colori accesi e case ben arredate in quartieri popolari e autentici. Il simbolo stesso della gentrificazione. Per questo fa sempre così strano come un narratore con questa ossessione per il melodrammatico sia poi così goffo nei cambi di tono e registro, così meccanico nel passare da leggero a melò… Ad ogni modo questa volta trova un aiuto là dove era meno scontato, cioè in Edoardo Leo, che passando attraverso il registro della commedia (quello a lui più familiare e nel quale è perfettamente a suo agio) batte una strada tutta sua per animare con efficacia un personaggio duro e tenero al tempo stesso. Sbruffone, semplice ma coriaceo. Di lui vorresti sapere tutto, del suo compagno niente.
Alla fine la perfetta metafora del film è l’immancabile scena di ballo che giunge implacabile a metà della durata. Inizia con un movimento dolce e una musica poco convenzionale, come fossimo in un film di Almodóvar in cui il ballo è qualcosa che si contempla, e poi lentamente scivola in una scena di ballo all’italiana, con una musica più convenzionale e tanti personaggi coinvolti in un gioioso caos, una scena in cui ballare serve solo a far sfogare i personaggi e mostrarli felici. Così funziona anche il resto del film: finchè tiene dritta la barra dei propri riferimenti rimane a galla, quando cerca di deviare per creare qualcosa di diverso finisce nei lidi più consueti e meno interessanti.
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