La cena delle spie, la recensione

Un film di spionaggio dozzinale come pochi, che tuttavia è convinto di avere un grande fascino a partire dai suoi due protagonisti che si guardano di continuo

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
La recensione di La cena delle spie, in uscita su Prime Video dall'8 aprile

Ci sono film che è meglio lasciare in superficie, perché più si approfondisce peggio è. La cena delle spie è uno di questi, andrebbe guardato di striscio, con scarso impegno, altrimenti i suoi mille problemi assalgono lo spettatore senza lasciarlo in pace. Come una valanga tutto peggiora di minuto in minuto, in un domino di tessere di insulsa pretenziosità non sorretta da niente. Non dal mestiere, non dal guizzo, non dalle interpretazioni e di certo non dalla regia, che tra tutti i comparti ha le responsabilità maggiori per non essersi mai accorta che nulla funzionava e aver continuato a cercare di dare forma ad un sofisticato spy movie dalla struttura a flashback, senza virare verso qualcosa di più semplice.

È Chris Pine, che ha l’aggravante di essere anche produttore esecutivo, ad iniziare la fiera dello sguardo intenso fuori dall’obiettivo. Agente segreto per la CIA con sciarpetta portata lenta al collo quando va in missione, incontra in un ristorante che sembra la fiera del green screen e del falso (anche i camerieri sembrano automi e non esseri umani) Thandie Newton, sua ex collega. Ha il compito di indagare su un vecchio incidente, il dirottamento di un volo, che nasconde qualcosa di più e che solleva vecchie ruggini, vecchi problemi e il vecchio rapporto tra i due. Il film è così, tutto una rievocazione a partire da quella cena, un gioco al gatto col topo fatto di svelamenti e pessimi dialoghi allusivi senza che si capisca mai bene a cosa.

La cena delle spie è uno di quei film in cui i personaggi si raccontano a vicenda cose che già sanno, come scusa per dirlo a noi, uno di quelli che usa la color correction “da spionaggio” (dominante blu per i setting europei e un po’ di desaturato sul verde per quelli euro-slavi, gialla per il medioriente). La trama è ovviamente molto complicata e raccontata in maniera così maldestra che è facile perdersi, anche perché è difficile non farsi distrarre dal continuo indugiare su campi e controcampi dei due, fissi e vuoti, che non si dicono niente ma si guardano con nostalgia come se dovessimo intuire molto (ma ovviamente non esce niente).

Chris Pine in particolare compie una scelta radicale e per tutto il film si impegna a recitare la distanza, una sorta di coolness da occhio stretto, come se non vedesse bene e stesse cercando di guardare lontano. Una fissità che non gli appartiene né avevamo visto in altri film e che qui invece è la scelta per rendere l’enigmatico agente segreto. E in questo disastro a catena in cui ogni campo abbatte il proprio controcampo, ogni dialogo nel presente sfianca un flashback fatto di espressioni esterrefatte e informatori traditi dovrebbe spuntare una storia d’amore che ben presto è impensabile. Non c’è il tono, non c’è il ritmo, non c’è la tensione e non c’è la serietà.

Continua a leggere su BadTaste