La cena delle spie, la recensione
Un film di spionaggio dozzinale come pochi, che tuttavia è convinto di avere un grande fascino a partire dai suoi due protagonisti che si guardano di continuo
Ci sono film che è meglio lasciare in superficie, perché più si approfondisce peggio è. La cena delle spie è uno di questi, andrebbe guardato di striscio, con scarso impegno, altrimenti i suoi mille problemi assalgono lo spettatore senza lasciarlo in pace. Come una valanga tutto peggiora di minuto in minuto, in un domino di tessere di insulsa pretenziosità non sorretta da niente. Non dal mestiere, non dal guizzo, non dalle interpretazioni e di certo non dalla regia, che tra tutti i comparti ha le responsabilità maggiori per non essersi mai accorta che nulla funzionava e aver continuato a cercare di dare forma ad un sofisticato spy movie dalla struttura a flashback, senza virare verso qualcosa di più semplice.
La cena delle spie è uno di quei film in cui i personaggi si raccontano a vicenda cose che già sanno, come scusa per dirlo a noi, uno di quelli che usa la color correction “da spionaggio” (dominante blu per i setting europei e un po’ di desaturato sul verde per quelli euro-slavi, gialla per il medioriente). La trama è ovviamente molto complicata e raccontata in maniera così maldestra che è facile perdersi, anche perché è difficile non farsi distrarre dal continuo indugiare su campi e controcampi dei due, fissi e vuoti, che non si dicono niente ma si guardano con nostalgia come se dovessimo intuire molto (ma ovviamente non esce niente).