La casa - Il risveglio del male, la recensione
In questa nuova versione di La casa lo spunto rimane uguale ma lo stile sembra seguire più l'ottimo film di Alvarez che l'originale
La recensione della nuova versione di La casa, nelle sale dal 20 aprile
Inizia tutto in una casetta nel bosco vicino al lago, in omaggio all’originale, ma è in realtà un flashforward, il vero film si svolge in città. Stavolta la casa è un condominio, un palazzo mezzo disabitato e fatiscente in uno dei cui appartamenti vive una famiglia: madre tatuatrice, zia groupie e accordatrice di chitarre, figlio aspirante DJ, figlia attivista contro i cambiamenti climatici. La scelta delle tipologie umane già è interessante, questo non è un nucleo di stereotipata innocenza a cui si contrappone il male ma una famiglia con i suoi problemi. Nello scantinato del palazzo viene trovato una specie di sarcofago con il Necronomicon-ex mortis dentro e come nella miglior tradizione di La casa, vengono pronunciate parole che non andrebbero pronunciate e così si aprono le porte del nostro mondo a demoni intenzionati ad impadronirsi delle persone che hanno a tiro.
A deludere semmai è la scrittura. Ci sono due madri e il film è convinto che proprio questo dettaglio, i rapporti madre/figlio e la maternità più in grande, abbiano un grandissimo senso. Solo che non riesce mai a darglielo. È evidente che La casa - Il risveglio del male vuole rispettare alcune regole di scrittura del cinema dell’orrore anche se non ci crede fino in fondo. La cosa sarebbe una sofferenza se il film poi non avesse quella capacità superiore alla media che possiede di tenere alto il tono infernale, di creare un’atmosfera per niente allucinata e anzi molto terrena, in cui i demoni e il sangue sembrano quasi parte dell’arredamento di androni, ascensori e interni nei quali a regnare è la distruzione progressiva degli esseri umani. Distruzione prima di tutto fisica ma lentamente anche spirituale. Un finale impeccabile lascia un buon sapore in bocca.