La casa di carta (quarta stagione): la recensione
Anche nella stagione 4, La casa di carta ripete i propri schemi, sempre più stanca e sempre più uguale a se stessa
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La casa di carta ha vari punti in comune con il film del 2019 Il buco. Entrambi produzioni spagnole, distribuiti da Netflix, diventati piccoli fenomeni globali grazie alla visibilità sulla piattaforma. Entrambi mettono al centro un attacco alle istituzioni e al modo in cui un certo capitalismo distorto intende la distribuzione iniqua delle ricchezze. Entrambi presentano il tema attraverso metafore – visive, narrative o di altro tipo – così smaccate e evidenti da aderire completamente al messaggio, che non lasciano spazio alla riflessione. Anche nella quarta parte, La casa di carta ripete questi schemi, sempre più stanca e sempre più uguale a se stessa.
Nelle prime due stagioni della serie la maschera di Dalì ricordava, con un'intuizione niente male, quella di Guy Fawkes in V per Vendetta. Una forza eversiva rappresentata da un simbolo che poteva essere indossato da chiunque perché davvero sotto la maschera poteva esserci chiunque. Quell'idea, che trovava spazio soprattutto nel finale in un dialogo sulle banche, e che già stonava abbastanza con l'improbabilità dell'intreccio, è diventata ormai la colonna portante dei temi della serie. Come la terza, anche la quarta parte lo conferma nel suo appoggiarsi a contrapposizioni superficiali, in cui nulla è da capire perché tutto è palese.
In questa corsa all'enfasi, la rapina allora diventa la cronaca di una guerriglia per la rivoluzione (il concetto di guerra ritorna spesso), con tanto di popolo che inneggia ai martiri. Il tutto incorniciato dal furore della piazza, che è ritratta come giusta e buona per definizione.