La casa di carta: la recensione

La recensione di La casa di carta, la miniserie spagnola che racconta la rapina alla zecca di Stato spagnola

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La casa di carta: la recensione

Se c'è una cosa che manca alla serialità italiana, nonostante i grandi sforzi e i buoni risultati degli ultimi anni, è la capacità di abbandonarsi alla pura godibilità del racconto. Completamente agli antipodi di questo approccio serioso e grave (nel senso di pesante) si trova La casa di carta, piccola rivelazione spagnola dello scorso anno trasmessa da Antena 3 in patria e distribuita da Netflix. La casa de papel, questo il titolo originale, è una variazione nemmeno troppo originale sul classico heist movie, ossia il genere della rapina. Con i suoi canoni ben definiti a cui rifarsi e un impianto di base pure ripetitivo, si tratta di un prodotto semplice, che infila un'ingenuità dietro l'altra e che richiede una forte sospensione dell'incredulità. Eppure – e questo fa tutta la differenza del mondo – è la grandissima godibilità di questa serie a riscattarla da ogni difetto.

Un gruppo di persone, ognuna a modo suo sconfitta dalla vita, si riunisce per mettere a segno una delle rapine più ardite mai congegnate. Si tratta di andare a colpire la zecca di Stato spagnola. Come nelle Iene, conosciamo i membri del gruppo attraverso soprannomi affini, presi da città famose. In particolare la vicenda ha una voce narrante interna che è quella di Tokyo, una delle donne della banda. A guidare il gruppo nell'impresa il misterioso Professore, personaggio che agisce in remoto, dando istruzioni ai suoi all'interno e gestendo al tempo stesso i contatti con polizia e servizi segreti. La rapina copre l'intero arco della serie, intervallata da flashback che fanno luce sull'addestramento seguito dai rapinatori per prepararsi ad ogni evenienza.

Non ha alcun senso parlare di La casa di carta in termini di "due stagioni", o analizzarle separatamente, dato che questa divisione è puramente arbitraria. In Spagna i quindici episodi da 75 minuti circa sono andati in onda divisi per comodità in due parti, con un intervallo di tre mesi. La serie è stata poi distribuita all'estero rimontata in ventuno episodi totali, più brevi, per venire incontro alle abitudini degli spettatori. Sul rimontaggio in sé non diamo un giudizio, ma notiamo una cosa. Il fatto di poter realizzare un'operazione del genere ha senso solo con una serie molto uniforme e, soprattutto, fluida nell'intreccio. In presenza di uno show episodico una soluzione di questo tipo avrebbe esiti disastrosi. Invece, con La casa di carta funziona.

La serie è di fatto un unico, martellante blocco di situazioni tese che si accavallano l'una sull'altra. Viene narrata come un gioco questa rapina – e si fa ricorso all'immancabile riferimento visivo alla partita a scacchi – in cui ogni mossa è una sfida a sé. Come nella prima stagione di Prison Break, ogni imprevisto che può far crollare tutto è motivo per andare a recuperare una contromossa precedente da parte di chi aveva previsto ogni cosa. A differenza di Scofield, il Professore non ha tatuaggi che lo aiutano, ma ha un bagaglio di informazioni e una preparazione sul tema che rasentano la preveggenza, oltre ad un'assurda capacità di adattamento. Come ogni cosa in questa serie, è un trucco di scrittura al quale fa piacere credere e abbandonarsi.

A voler rintracciare un precedente ideale, nei momenti migliori della Casa di carta sembra di rivedere il periodo della maturità di Luc Besson, che riusciva a far proprio il genere action. Questo avviene soprattutto, e palesemente, nel personaggio di Tokyo, che rappresenta la fusione ideale tra Nikita e una versione adulta della Mathilda di Léon. Ciò che è ammirevole è la convinzione, quasi l'ingenua purezza, con cui la serie tratteggia personaggi da un lato di grana grossa, ma dall'altro così semplici da permettere un'identificazione immediata (Nairobi, Berlino, Helsinki, li inquadreremo dopo poche battute). Si tende sempre a parteggiare per i ladri in queste situazioni, ma la serie riesce a farci tifare per il singolo rapinatore, piuttosto che per il gruppo nella sua totalità.

A fronte di tutta questa godibilità generale, la serie paga un prezzo alto nella verosimiglianza e coerenza interna della storia. Le ingenuità e forzature di trama si sprecano, ci sono continue giravolte nelle reazioni e nelle relazioni tra i personaggi. La voce narrante si esprime praticamente solo tramite metafore che ribadiscono l'ovvio. La scrittura è estremamente indulgente con i protagonisti, che vengono spesso riscattati da possibili errori gravi, e quando la serie tenta un po' di critica sociale si sprofonda in banalità generiche. Segnaliamo infine a margine una traccia della soundtrack che ci pare "molto ispirata" al tema di Interstellar.

In ogni caso, grazie alla sua leggerezza è da promuovere questa serie spagnola in cui i rapinatori indossano la maschera di Dalì e l'organizzatore di tutto suona il tema della Stangata al pianoforte. Un po' di leggerezza e di puro godimento della storia che ci piacerebbe vedere di più anche nei prodotti nostrani.

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