La caja, la recensione | Venezia 78

La caja di Lorenzo Vigas ripropone come in Ti guardo il tema del rapporto padre-figlio, non riuscendo però a suggerire niente se non la pura volontà di contemplare.

Condividi
La caja, la recensione | Venezia 78

Sicuramente non sarà stato facile per Lorenzo Vigas lavorare a un nuovo film di finzione dopo aver vinto il Leone d’oro a Venezia nel 2015 con il suo film d’esordio Ti guardo. Tuttavia l’autore venezualano (qui alla Mostra anche in veste di produttore per un altro film in concorso, Sundown di Michel Franco) sembra non aver retto la pressione - o semplicemente aver sbagliato il tiro - proponendo con La caja un film che sembra più un bozzetto, un esercizio stanco (e stancante) che racconta nuovamente ma senza nuove idee il rapporto padre-figlio.

Con Ti guardo eravamo in Venezuale, con La caja invece ci spostiamo in Messico ma il protagonista è sempre un adolescente che ha un rapporto difficile con la figura paterna e che prova goffamente a sostituire/recuperare quella presenza nella sua vita. Al centro del film c’è appunto Hatzín (Hatzín Navarrete), un adolescente che compie un viaggio per farsi restituire i resti del padre che sono stati rivenuti in una fossa comune nel deserto. Questi resti si presentano in una asettica scatola di metallo (appunto ‘la caja’ del titolo, ovvero la cassa), sono l’emblema dell’anonimia e della freddezza. Quando però Hatzín vede dall’autobus un uomo identico a quello rappresentato nella carta d’identità del padre (Hernán Mendoza) decide di fermarlo, convinto che si tratti effettivamente di lui e non di un sosia.

La caja, diversamente da Ti guardo, si lascia andare a quadri e tempi molto più contemplativi. C’è l’ammirazione malinconica del vasto paesaggio messicano, che assume le sembianze di un grande dipinto ad acquerello, c’è l’attenzione quasi documentaristica nel soffermarsi sempre sul volto del protagonista, che per tutto il film non dice quasi una parola. La caja in questo senso sembra trattenersi sempre, vuole fare del minimalismo ma ottiene invece soltanto una semplicità troppo allusiva e confusa.

Vigas inserisce qui il parallelismo tra l’anonimia della scatola, quella del padre (che si fa chiamare con due nomi diversi, e quindi non ha una identità precisa) e, aggiungendo anche un tassello più politico, l’anonimia dei lavoratori delle fabbriche, qui merce di scambio e senza valore sacrificabili proprio perché annichiliti, spersonalizzati. Si tratta di masse di lavoratori che proprio il padre di Hatzín per lavoro arruola a lavorare in grandi stabilimenti, e che anche Hatzín, decidendo di stare vicino al supposto padre, comincia a “gestire”. Tutti questi collegamenti però Vigas non riesce davvero a renderli significativi. La caja vuole essere suggestivo, poetico, forse ambiguo ma manca ancora un passo decisivo per sconfinare in un discorso che sia chiaro e direzionato.

Se guardando il volto di Hatzín Navarrete non si riesce a decifare niente di più rispetto a quello che si vede accadere, allo stesso modo guardando La caja non si riesce a cogliere una prospettiva precisa su ciò che Vigas sta raccontando. La contemplazione è la regola che Vigas si vuole dare e giustamente persegue, coerente fino alla fine: ma la semplicità può essere un'arma fin troppo pericolosa se non si sa fino a che punto è conveniente 'asciugare'. Il risultato può essere, come lo è qui, un banale spaesamento.

Siete d'accordo della nostra recensione di La caja? Scrivetelo nei commenti!

Vi ricordiamo che BadTaste è anche su Twitch!

Continua a leggere su BadTaste