La caccia, la recensione

Basato su una storia non male, La caccia soffoca sotto i colpi del suo stesso desiderio di essere un film potente, sempre e in ogni momento

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di La caccia, il film di Marco Bocci in sala dall'11 maggio

La cosa più forte che esce da La caccia è il desiderio di Marco Bocci di fare un film forte. La sceneggiatura (dello stesso Bocci con Alessandro Pondi e Alessandro Nicolò) parla di quattro fratelli in difficoltà e della vendita di un grande villone in cui sono cresciuti che potrebbe tirarli fuori dai guai. È un buon soggetto che ha dentro di sé quell'unione di usuale e particolare che serve: contrasti e idee eterne (storie di soldi in famiglia, la cattiveria delle persone tirata fuori dalla necessità) e al tempo stesso moderne, perché ognuno di loro ha difficoltà contestualizzate nel presente. La caccia però questa sceneggiatura la mette in scena puntando a creare un alto numero di scene madri, caricando l’espressività del film e preferendo un registro spesso urlato che andrebbe anche bene se solo ognuna di queste molte scene forti fosse stata caricata e costruita come tale da quel che la precede.

Questa trama di una famiglia decaduta, di fatti di sangue e traumi passati che condizionano il presente è anche srotolata bene, con un po’ di flashback e un po’ di guai nel presente, con diverse declinazioni di come si possa condurre una vita insoddisfacente (certo la scelta di incorniciare tutto con una voce fuori campo che racconta una favola che allegoricamente somiglia a questa storia peggiora proprio tutto ogni volta che entra in gioco…), ma dalle musiche alla recitazione fino ai costumi tutto è a tinte così forti che diventa difficile da manovrare. Basta vedere Pietro Sermonti che con una scelta di controcasting fa un personaggio per lui inusuale, con un abbigliamento estremamente caratterizzante e una recitazione molto decisa, nello stesso modo Laura Chiatti e Filippo Nigro sono delineati per tratti grossi e Paolo Pierobon è invece pienamente uno stereotipo. Sarebbe tutto anche accettabile se il cuore della storia fosse altrove, ma in realtà proprio questi loro drammi sono quello che ci deve portare ad accettare il gran finale.

Con l’andare avanti della trama la bontà del soggetto comincia a soccombere di fronte allo sviluppo insufficiente dei personaggi, che tendono al loro finale come attratti da un magnete e non come se l’intreccio ce li conducesse naturalmente. È chiaro e anche apprezzabile che La caccia voglia essere energico, voglia essere potente e mettere sullo schermo contrasti titanici che sono sia ordinari (perché in misure diverse si trovano nelle vite di tutti) sia unici e clamorosi (in virtù della trama), solo che poi il film finito dimostra una certa fatica nel gestire quel tono così marcato e diventa una sequenza di scene capitali. Lo si vede anche nel gran finale (anche quello fondato su una buona idea) in cui la logistica della caccia e del suo finale dovrebbe essere un meccanismo stringente ma non è per niente preciso. Ci dovrebbero essere degli equivoci che fanno sì che ognuno dei quattro fratelli pensi che stia accadendo qualcosa che invece non sta accadendo, e agisca di conseguenza. Tuttavia gli incastri non sono impeccabili e si ha subito la sensazione che la concatenazione causa-effetto sia forzata.

Una chiusa da horror poi sarà forse il momento più riuscito di tutti ma avrebbe meritato un film migliore che la costruisse.

Continua a leggere su BadTaste