La bocca dell’anima, la recensione: realismo e fantastico alleati per raccontare una Sicilia perduta

La recensione di La bocca dell’anima, il film d’esordio di Giuseppe Carleo al cinema dal 26 settembre.

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“La magia è quella cosa che ovunque, sempre e da tutti è creduta” si diceva in Suspiria di Dario Argento. La bocca dell’anima si accontenta di meno: nella magia si credeva (e in qualche caso ancora si crede) nella Sicilia impervia dell’interno, che il film mostra coperta di neve nell’inverno 1949. Tanti giustamente lo stanno chiamando un film “antropologico”, come suggeriscono i titoli di coda secondo cui ci si è basati sulle ricerche della studiosa Elsa Guggino sulla magia in Sicilia. Scopo di Giuseppe Carleo è documentare e rievocare nel modo più veritiero possibile il sistema di credenze di quella società, dove il culto cristiano conviveva e spesso confliggeva con le pratiche magiche di stregoni-guaritori (i famosi “majari”). Quello che distingue il suo film da tanto cinema folk di questi anni è la capacità di andare oltre la ricostruzione del dettaglio storico esteriore per immergere davvero il pubblico in un orizzonte culturale lontano, in un’altra mentalità.

Non per niente citiamo Argento. La bocca dell’anima da un lato è un film di tradizione “verista”, che somiglia a tutta quella linea di cinema italiano impegnata a raccontare l’Italia contadina cancellata dalla modernità. Per fare un esempio recente, non solo l’ambientazione innevata, ma anche la premessa narrativa (un giovane soldato siciliano ritorna dalla Seconda guerra mondiale in un paesino di montagna) sono praticamente identiche a quelle di Vermiglio di Maura Delpero: ed entrambi i film sono macchine del tempo accuratissime su come funzionava l’Italia di allora, attente alla ricostruzione storica di un intero mondo di riti, strumenti, linguaggio, valori. Ma mentre Vermiglio sotto sotto è un film di mentalità moderna (per esempio nella voglia di criticare un Padre-padrone che decide di privare una figlia dell’educazione), e quindi in qualche modo si colloca “fuori” da quell’orizzonte culturale, La bocca dell’anima si astiene dai giudizi preferendo farci vedere il mondo – fino in fondo – con gli occhi dell’epoca. Ed è qui che entra in scena l’horror.

Apparentemente l’horror, regno del sensazionalistico e del fantastico, dovrebbe essere all’estremo opposto di un’idea di cinema storico come questa. Carleo però intuisce che nella sua capacità di sospendere l’incredulità, di far vivere la magia come illusione cinematografica, ci può essere il segreto per raccontare da dentro un mondo che nella magia vive completamente immerso. Per questo tante scene di La bocca dell’anima “somigliano” (senza mai esserlo davvero) a scene horror: sacrifici animali, possessioni, voci disincarnate che pronunciano parole di lingue sconosciute a chi le parla. Tutto questo l’horror ha sempre cercato di raccontarlo e renderlo credibile, e il film se ne appropria cambiandogli senso, riportandolo dall’idea della paura a quella altrettanto antica della credenza e del rito. È questo, ancor più della cura riposta nella ricostruzione storica, a rendere così vero La bocca dell’anima e così riuscita la sua missione documentaria.

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