La bête, la recensione | Festival di Venezia
La bête di Bertrando Bonello è un affascinante dispositivo teorico, il cui senso e interesse è riscontrabile più nella componente di esplorabilità immersa che offre che in quella della soddisfazione narrativa.
La recensione di La bête, presentato in Concorso al Festival di Venezia 2023
La bête è un film che lavora esso stesso come un dispositivo complesso, di difficile lettura, articolato da immagini false e illusorie (vediamo cose apparentemente incongruenti) e da una narrazione a dir poco enigmatica. Di primo acchito La bête potrebbe quindi sembrare respingente, o addirittura auto compiaciuto: e invece man mano che questa molteplicità di mondi ci fa trovare elementi ricorrenti (una veggente, un piccione, delle bambole) e il flusso del film ci fagocita, ecco che il quadro comincia a delineare i suoi - pur vaghi - contorni e La bête si afferma come come un affascinante dispositivo teorico, il cui senso e interesse sono riscontrabili molto di più nella componente di esplorabilità immersiva che offre che in quella della soddisfazione narrativa.
Se “la bestia” del titolo fatica a definirsi come concetto più che vago, ciò che invece Bonello afferma con più decisione è che nel mondo di La bête il perturbante è sempre ciò che è tecnologico e ciò che è visibile - per Gabrielle e per noi spettatori - spesso è un inganno, un artificio insidioso. Come a dirci che dobbiamo dubitare di tutto tranne che delle nostre emozioni, Bonello pone formalmente il film come una serie di prove visive/fattuali di cui dobbiamo continuamente verificare l’attendibilità, tra versioni alternative degli stessi eventi (le tre linee temporali) o degli stessi oggetti (le bambole che via via si fanno all’apparenza più umane, fino ad avere capacità di parola).
Pur continuando ad aggiungere lungo il film possibili strati di lettura e di complicazione, Bonello alla fine riesce a raccogliere - e quasi a ordinare - questo spaventoso caos di possibilità, facendoci riflettere sui confini tra il reale (ciò che è sempre vero: il sentimento) e il realistico (che è invece replicabile: l'immagine, il feticcio). E se La bête, nonostante la dispersività narrativa, riesce a trovare coerenza ed intensità, il merito è in gran parte di Léa Seydoux, sempre al limite tra l’annullamento apatico, il terrore e la fragilità di chi è stato ferito.
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