La bête, la recensione | Festival di Venezia

La bête di Bertrando Bonello è un affascinante dispositivo teorico, il cui senso e interesse è riscontrabile più nella componente di esplorabilità immersa che offre che in quella della soddisfazione narrativa.

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La recensione di La bête, presentato in Concorso al Festival di Venezia 2023

Bertrand Bonello ama intrecciare i fili invisibili della Storia, collegare in un presente paradossale linee temporali multiple secondo speculazioni filosofiche spesso enigmatiche, ma altrettanto stimolanti. In un clima di surrealismo futurista dove l’intelligenza artificiale può annullare le emozioni umane, Bonello in La bête articola nuovamente il ritratto di una donna (qui Léa Seydoux) affranta dal dolore di un amore, alla disperata ricerca di una purificazione. Se infatti nel precedente Zombie Child tale annullamento emotivo avveniva attraverso la ritualità voodoo e una riflessione antropologica, in La bête questa catarsi si fa tecnologica, ponendo il fallimento del sintetico rispetto alla forza eterna dell’emotività e dell’amore.

La bête è un film che lavora esso stesso come un dispositivo complesso, di difficile lettura, articolato da immagini false e illusorie (vediamo cose apparentemente incongruenti) e da una narrazione a dir poco enigmatica. Di primo acchito La bête potrebbe quindi sembrare respingente, o addirittura auto compiaciuto: e invece man mano che questa molteplicità di mondi ci fa trovare elementi ricorrenti (una veggente, un piccione, delle bambole) e il flusso del film ci fagocita, ecco che il quadro comincia a delineare i suoi - pur vaghi - contorni e La bête si afferma come come un affascinante dispositivo teorico, il cui senso e interesse sono riscontrabili molto di più nella componente di esplorabilità immersiva che offre che in quella della soddisfazione narrativa.

La storia è quella di Gabrielle, che vediamo in tre momenti storici diversi: a fine 800, nel 2014 e nel 2044. Se non fosse per il paradosso temporale diremmo subito che queste tre donne sono la stessa persona: sono infatti identiche (è sempre Léa Seydoux), hanno lo stesso nome e soprattutto condividono lo stesso sentimento per lo stesso uomo (George MacKay), anch’egli ripetuto nel tempo come Gabrielle. Sottopostasi a un futuristico processo di purificazione del DNA per cancellare quel trauma amoroso, Gabrielle sarà allo stesso tempo individuo singolo e le sue antenate; esplorerà i limiti massimi della tecnologia del suo tempo e tenderà al feticcio di una bambola, dimostrandosi tuttavia (e questo è il bug del sistema, un topos del genere sci-fi) estremamente resistente a farsi donna-artificio.

Se “la bestia” del titolo fatica a definirsi come concetto più che vago, ciò che invece Bonello afferma con più decisione è che nel mondo di La bête il perturbante è sempre ciò che è tecnologico e ciò che è visibile - per Gabrielle e per noi spettatori - spesso è un inganno, un artificio insidioso. Come a dirci che dobbiamo dubitare di tutto tranne che delle nostre emozioni, Bonello pone formalmente il film come una serie di prove visive/fattuali di cui dobbiamo continuamente verificare l’attendibilità, tra versioni alternative degli stessi eventi (le tre linee temporali) o degli stessi oggetti (le bambole che via via si fanno all’apparenza più umane, fino ad avere capacità di parola).

Pur continuando ad aggiungere lungo il film possibili strati di lettura e di complicazione, Bonello alla fine riesce a raccogliere - e quasi a ordinare - questo spaventoso caos di possibilità, facendoci riflettere sui confini tra il reale (ciò che è sempre vero: il sentimento) e il realistico (che è invece replicabile: l'immagine, il feticcio). E se La bête, nonostante la dispersività narrativa, riesce a trovare coerenza ed intensità, il merito è in gran parte di Léa Seydoux, sempre al limite tra l’annullamento apatico, il terrore e la fragilità di chi è stato ferito.

Siete d’accordo con la nostra recensione di  La bête? Scrivetelo nei commenti!

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