La Belva, la recensione

È tutto giusto in La Belva, film d'azione che prende una struttura basilare e ha l'intelligenza di metterla in pratica senza variazioni, cercando solo di farlo bene

Critico e giornalista cinematografico


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Cominciare dalle basi. In Italia non esiste un cinema d’azione serio, esistono semmai tentativi, spesso indipendenti, qualche volta più di alto profilo, che sono in linea di massima una serie di fallimenti per ragioni sempre diverse che tuttavia tendono a girare intorno ad una scarsa conoscenza del genere in sé (quando accadono eventi impensabili per il tipo di film o quando parlano una lingua assurda viste le premesse) o intorno ad una scarsa capacità di pianificare, gestire, girare e poi montare l’azione. La Belva sembra aver aggirato entrambi questi problemi. Ludovico Di Martino (quasi esordiente con esperienza anche in SKAM) ha diretto e co-scritto, assieme a Claudia De Angelis e Nicola Ravera, un film dotato del grado di semplicità giusto nella trama e di complessità corretto nelle scene d’azione, uno in cui è stata data importanza a ciò che conta in questo tipo di storie (l’azione, non i dialoghi), che non si perde in chiacchiere mai ma è intenzionato a raccontare quel che deve dentro all’azione o con l’azione. E lo fa partendo dalle basi.

La trama di La Belva è infatti un classico. Un ex dei corpi speciali con sindrome da stress post traumatico, imbottito di medicinali per non sentire più niente, senza interesse per la vita, è stato in guerra e ne è tornato tarato. Qualcuno ha la pessima idea di rapirgli la figlia. Chi, perché, come e con quali fini diventa quasi secondario. Parte una caccia in cui la Belva è sempre un passo avanti alla polizia. Solitamente un passo violento.
Tutto è molto standard date queste premesse, La Belva non ha nessuna intenzione di stupire con l’intreccio ma semmai di inserirsi in una tradizione. Non ha l’estasi dei corpi di Commando ma le tare mentali di The Hurt Locker, non ha una paternità affettuosa ed iperbolica come Taken ma semmai una certa disperazione marginale ad aiutarlo. È notturno e provato, ambientato in una periferia come tante presa per quel che è, non per il contesto sociale che suggerisce.

Ci sono le facce giuste, c’è l’atteggiamento giusto e addirittura c’è il tono giusto. Il punto del film è sempre il suo obiettivo e perseguirlo al di fuori della legge, senza regole e nella maniera più rapida possibile. Solo così è possibile per La Belva trovare senso, nello scavo più profondo negli istinti, nelle pulsioni, nella rabbia. Ovviamente nella soddisfazione dello spettatore messa al primo posto (incredibile!), ma anche nella maniera in cui ci arriva, rispettando tutte le aspettative e facendolo con capacità.
Certo ci sarà un momento, in ospedale, in cui sembrerà che il film debba pagare il proprio tributo al cinema italiano, come se ci fosse un pizzo che qualcuno esige e che prevede almeno una scena di discussioni intimiste, di sguardi fuori dalla finestra, di crogiolamento nella propria intensa sconfitta umana. Ma per fortuna è un momento così breve che non riesce a stonare troppo e lascia in fretta spazio al finale scontato, prevedibile, canonico e soprattutto giusto.

In un film come La Belva infatti non conta mai l’originalità degli esiti (ogni tanto semmai quella dei presupposti) ma conta la faccia nera del protagonista (e Fabrizio Gifuni meno parla più è convincente, incarna benissimo il corpo d’azione, meno la recitazione per un ruolo simile) conta la disperazione dei pugni, conta la propensione a prenderle senza remore in una sorta di autoflagellazione, di purificazione tramite il dolore, conta la violenza da vendicare perpetrandone altra come se non ci fosse alternativa. E per una volta siamo riusciti a raccontare bene una storia di questo tipo.

Che dietro al progetto ci sia la produzione di Groenlandia, quindi, non stupisce nessuno.

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