La bella estate, la recensione | Locarno 76

Drenato da ogni passione, emozione e possibilità di comunicare tutta l'intensità che desidererebbe, La bella estate è vuoto

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di La bella estate, il film di Laura Luchetti presentato nella sezione Piazza Grande del festival di Locarno

C’è un mistero dentro a La bella estate, quello di cosa sia esattamente a sottrarre qualsiasi vitalità, passione e coinvolgimento da questa storia che invece (in teoria) racconterebbe il contrario. Sarebbe la storia della nascita di un sentimento complesso, della scoperta del sesso e quindi del piacere, una specie di coming of age (tardivo per l’età), con annessa maturazione della consapevolezza di un amore omosessuale. Il primo imputato (come sempre) è la scrittura, piattissima e uguale per ogni personaggio, che finiscono per avere tutti reazioni indistinguibili, standard. Scavando di più si potrebbe dare la colpa alla messa in scena, così corretta dal punto di vista della ricostruzione storica, e così generica nello stile. Ma alla fine è chiaro, sono le interpretazioni che drenano ogni emotività.

Quello che si può intuire è che in origine, forse, l’idea era di centrare un tono carnale ma garbato simile a quello di Carol di Todd Haynes, una storia che non rinunci in nessun momento a mettere sullo schermo la tensione dell’attrazione sessuale ma lo faccia per lunghi tratti con un’astensione dalla carne e una passione invece per come il desiderarsi passare dalla recitazione di un istinto represso a forza. Tuttavia in La bella estate la difficoltà di un contatto carnale non suona come l'imposizione figlia di un’epoca o di un costume ostili,  non c’è l’impressione che questi lottino contro le protagoniste, semmai sembra venire dalla loro fatica nel recitarlo e da un generale stile artefatto.

Questo è un film che sembra ambientato più che nel mondo degli esseri umani, sul palco di un teatrino di provincia. Nemmeno il piombare sulle protagoniste della più tragica delle notizie riesce a scavare una tacca nella loro coriacea inespressività. La falsità nei gesti e nelle trovate sceniche, le intenzioni così blande e l’uso del corpo nella recitazione inesistente sono una montagna insormontabile anche per la più emotiva delle scene. L’apoteosi dell’artificiosità in un film che invece vuole essere una storia di corpi in cui scopriamo il corpo insieme alla protagonista e al cui nudo full frontal ci arriveremo insieme a lei, quando sarà pronta a mostrarsi agli altri personaggi e quindi a noi, maturandone il senso invece che ottenendone soltanto il risultato.

Ma anche nei momenti riusciti non si può fare finta di non vedere come La bella estate sia un film con grandi pretese nel quale tuttavia tutto ciò che di più interessante è suggerito non ha sostanza. Ad esempio il discorso per il quale farsi guardare (come capita alle protagoniste che fanno da modelle per dei pittori) sia una forma di sottomissione all’uomo, non è mai chiaro. In che senso? Come? E soprattutto, con quali implicazioni? Vediamo solo che lo sguardo di questi uomini sulle donne le umilia, perché le vedono come un corpo e basta, ma tutto ciò fa una tale fatica a entrare in relazione con il resto della storia che viene il sospetto che siamo noi, il pubblico, quelli a cui sia chiesto di trovare un modo per collegarli perché il film non ci riesce.

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