La Bambola Assassina, la recensione
Molto più ironico e consapevole, ma anche dolcemente distopico e godereccio, il nuovo La Bambola Assassina è una piacevole sorpresa
Quello che rimane è l’anima da slasher autoironico (anche più dell’originale perché molto più consapevole), quel che cambia è il contesto. La versione 2019 di La Bambola Assassina è una distopia del presente in cui l’orrore non viene dal voodoo ma dalla tecnologia, viene dallo sfruttamento di manodopera senza diritti in paesi asiatici da parte di multinazionali occidentali. La nostra noncuranza di cosa avvenga lì per avere qui prodotti di consumo a basso costo è l’origine di tutto, perché lì l’intelligenza artificiale che regola la bambola viene modificata: per dispetto.
Questo classico horror consapevole di tutto (del proprio brand, della storia del genere, dei suoi meccanismi e del fatto che anche il pubblico lo è) non mira a spaventare davvero, semmai un po’ a inquietare ma soprattutto a divertire con il sangue, cercando (e in molti punti trovando) un buon equilibrio tra serietà e consapevolezza dell’assurdità del tutto. Un perfetto midnight screening da drive-in in cui l’esagerazione dello splatter è quasi una compensazione, una giustificazione per i toni più che altro da Black Mirror.
Il nuovo La Bambola Assassina è molto meglio di quel che non si potesse temere, anche se arriva forse un pelo troppo spompato al suo finale. Tuttavia ha il pregio di sapere davvero come ci si diverte oggi con uno slasher. Per questo stupisce che sia diretto dallo stesso regista che solo poche settimane fa ha portato al cinema il terribile e ridicolo Polaroid e viene da pensare che forse il merito sta più sulle spalle dello sceneggiatore (quasi esordiente) Tyler Burton Smith.