L'orto americano, la recensione: Avati omaggia Hitchcock e il gotico padano in un racconto affascinante ma irrisolto

La recensione de L'orto americano, film di chiusura del Festival di Venezia, diretto da Pupi Avati

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Le nebbie del Po velano ogni cosa in L’Orto Americano, eco di un passato che sembra volersi disperdere piuttosto che essere ricordato. Tra l’Iowa e l’Emilia Romagna, Pupi Avati costruisce una storia che si propone di scavare nelle pieghe oscure della memoria e della follia, un intreccio dove l’amore si trasforma in ossessione e la verità si smarrisce in un labirinto di ombre.

L’ultima opera del cineasta bolognese si presenta col biglietto da visita di un giallo avvincente: il giovane protagonista senza nome (Filippo Scotti), invaghito di una bella infermiera americana vista di sfuggita, si addentra in un’indagine mossa più dal cuore che dalla logica, finendo invischiato in una torbida vicenda giudiziaria che, forse, è legata proprio alla sua amata scomparsa.

L'Orto Americano inizia come una storia d’amore impossibile e si trasforma presto in un noir in cui Avati intreccia due dei filoni a lui più cari: quello della nostalgia per un’Emilia Romagna perduta e quello del gotico padano, radicato nel mistero e nell’horror. Una miscela che consente al regista di fondere elementi straordinariamente gore con momenti di delicata contemplazione, in linea con le sue opere più intimiste e sofferte.

La sinistra vicenda si snoda attraverso atmosfere rarefatte, con un'estetica curatissima che inchioda lo spettatore in un limbo di inquietudine hitchcockiana dove ogni angolo in penombra potrebbe nascondere un segreto, dove le case sono ostili e fredde, e le campagne nascondono orrori troppo profondi.

Le tonalità suggestive che caratterizzano il lavoro di Avati sono dunque ben presenti, ma vengono spesso soffocate da una sceneggiatura che pare diluirsi in rivoli irrilevanti (insostenibili i verbosi, inutili scambi tra il protagonista e la sorella di Barbara, interpretata da una Morena Gentile doppiata in modo involontariamente ridicolo); arranca, soprattutto, nella parte centrale da courtroom drama che si trascina oltre il necessario senza aggiungere peso alla trama, ma anzi suggerendo false piste che poi verranno frettolosamente smentite.

Con una recitazione trattenuta e minimale, Filippo Scotti riesce a trasmettere un palpabile senso di isolamento e desiderio sotto pelle, sebbene il suo personaggio resti intrappolato in situazioni talvolta drammaturgicamente forzate (basti pensare all'improvviso internamento, tanto rapido da apparire ingiustificato). Ciononostante, la prova del giovane attore è magnetica e sensibilissima, coadiuvata da un lavoro certosino sulla costruzione del suo look evocativamente nostalgico.

Nota di merito alla colonna sonora: le note eteree e soprannaturali del theremin di Stefano Arnaldi si fondono perfettamente con le ombre nette catturate dalla fotografia di Cesare Bastelli. Plauso anche al tema di Barbara composto dall'attore Alessandro Sperduti, un canto sottile e struggente che riflette la bellezza irraggiungibile della ragazza scomparsa. Una melodia delicata che attraversa il film come una memoria affettiva che, benché lontana, si fa indelebile.

Eppure, l'odissea nebbiosa di Avati rischia di risultare inconsistente: il mistero della scomparsa di Barbara, che inizialmente sembra promettere svolte accattivanti, si sfalda velocemente, lasciando il pubblico con la sensazione che molti degli elementi narrativi siano stati lasciati volutamente incompiuti, senza però la giustificazione di un vero intento poetico.

Questa vaghezza trova parziale riscatto in un finale sospeso, riflesso della volontà di Avati di fare del mistero un elemento essenziale della propria poetica, sfidando lo spettatore a convivere con l'irrisolto. L'ultimo tassello dell’indagine si disperde come un sussurro, in un epilogo lattiginoso che lascia il pubblico immerso nell’ambiguità. L'acqua salata e quella dolce del delta del Po si mescolano, così come la follia e la ragione, il presente e il passato.

Disinteressato a confezionare un giallo classico, Avati ci guida dunque in un viaggio fatto di suggestioni visive e sonore, in cui la verità sfugge come un’ombra intravista nella foschia. Un atto d’amore per noir e thriller degli anni ‘40, una strizzata d’occhio al proprio passato orrifico (su tutti, torna in mente La casa dalle finestre che ridono) e un ennesimo omaggio alla propria terra, quel Midwest nostrano che ha raccontato con immutato affetto nel corso di tanti anni di carriera.

L'Orto Americano è dunque, più che un'indagine, uno spaccato denso di atmosfere e suggestioni. Non dà spiegazioni, e poco lo apprezzerà chi si attiene alle norme più tradizionali del racconto investigativo: per godere al massimo del suo potenziale, occorre gustarne il sapore malinconico, consci che questo dramma di pianura esista e respiri nel territorio palustre di ciò che non potrà mai essere compreso del tutto.

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