L'imprevedibile viaggio di Harold Fry, la recensione

In L'imprevedibile viaggio di Harold Fry c'è una fastidiosa dolcezza senile che finge di parlare di noi e in realtà pettina il buonismo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di L'imprevidibile viaggio di Harold Fry, in uscita nelle sale il 5 ottobre

Nonostante sembri molto originale e molto fantasiosa la storia di L’imprevedibile viaggio di Harold Fry non è impossibile. Il film racconta di un uomo che saputo della malattia (un cancro) che ha colpito una vecchia conoscenza, decide di andarla a trovare a piedi, di attraversare cioè il Regno Unito camminando, come modo per tenerla in vita. Il percorso lento in sé è l’atto che non la farà morire perché i due devono incontrarsi e fino a che non succede, fino a che cioè lui continuerà a camminare, lei non potrà morire. Sembra assurdo ma è quello che fece Werner Herzog nel 1974 percorrendo a piedi tutta la strada da Monaco a Parigi per andare a trovare Lotte Eisner, critica cinematografica tedesca, che secondo lui non poteva morire e che quel suo viaggio a piedi avrebbe tenuto in vita. Il film non è in nessun modo ispirato a questo fatto (anzi viene da un racconto di Rachel Joyce), Herzog lo faceva in modi totalmente laici con durezza e senso dell’avventura, L’imprevedibile viaggio di Harold Fry invece è un film palesemente spirituale, pieno di raggi di sole che filtrano tra le nuvole, mai avventuroso, sempre confortante.

L’ispirazione viene a Harold vedendo una cassiere illuminata da un raggio di sole che sembra riempire le dolci parole di lei di presagi divini. Seguiranno continui segnali dal mondo della natura che lo spingono verso questo viaggio che è anche il più classico dei momenti di compenetrazione con la natura in contrasto con la sua ordinaria vita di città. La moglie lasciata a casa non la prende bene, fino a che non capisce anche lei, come noi, che dietro tutto questo c’è altro, c’è l’esigenza di elaborare cose accadute nella sua vita. Eventi turpi che vengono sublimati (ma davvero mai affrontati) come parte di una grande vita lungo questo viaggio. 

Il film ha una fastidiosissima prospettiva antiurbana e banalmente naturalistica, di quel tipo di naturalismo che viene da chi la natura non la conosce granché ma è innamorato dell’idea di vita dai ritmi lenti. È il tipo di film che a un certo punto finisce a svelare una ragion d’essere diversa da quella iniziale, nell’elaborazione di traumi e nella vera natura del rapporto con questa donna malata. Tutto è trattato come fosse un apice narrativo e invece è solo un deludente e maldestro cambio di registro. Non che quello iniziale, così smielato e senile, fosse chissà che delizia. “Forse è quello di cui il mondo ora ha bisogno: meno senso e più fede” dirà qualcuno ad un certo punto riguardo questo viaggio a piedi di Harold, che in breve diventa Forrest Gump, noto in tutto il paese, ammirato e con un seguito di fedeli che camminano con lui e che lui ovviamente non vorrebbe (figuriamoci! Contaminano la sua purezza!).

Di tutto questo capitale di aspirazioni spirituali e purificazione personale accumulato lungo la storia poi il film farà davvero molto poco, in un finale appositamente in minore, che dovrebbe rilanciare più che l’importanza dell’esito, la centralità del percorso. Ma quel percorso è di una banalità sconvolgente quanto a ruffiani simbolismi e sfiancanti buonismi. La brava gente britannica incontrata da Harold sono immigrati, ragazzi per bene, persone in difficoltà e uomini e donne di buon cuore che lo vogliono aiutare perché riconoscono in lui una purezza senile contagiosa. Jim Broadbent cavalca quest’ideale senza remore e senza dargli nessuna concretezza, nessuna complessità. Fisso in un sorriso ingenuo e sognante.

Per la cronaca, nella reale Europa del 1974 alla fine Werner Herzog realmente arrivò a Parigi da Monaco a piedi, da solo, d’inverno. E Lotte Eisner di fatto rimase in vita (sarebbe morta molti anni dopo nel 1982). Durante quell’impresa Herzog tenne un diario che poi è diventato il libro Sentieri di ghiaccio, l’opposto logico del buonismo.

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