L'imprevedibile viaggio di Harold Fry, la recensione
In L'imprevedibile viaggio di Harold Fry c'è una fastidiosa dolcezza senile che finge di parlare di noi e in realtà pettina il buonismo
La recensione di L'imprevidibile viaggio di Harold Fry, in uscita nelle sale il 5 ottobre
L’ispirazione viene a Harold vedendo una cassiere illuminata da un raggio di sole che sembra riempire le dolci parole di lei di presagi divini. Seguiranno continui segnali dal mondo della natura che lo spingono verso questo viaggio che è anche il più classico dei momenti di compenetrazione con la natura in contrasto con la sua ordinaria vita di città. La moglie lasciata a casa non la prende bene, fino a che non capisce anche lei, come noi, che dietro tutto questo c’è altro, c’è l’esigenza di elaborare cose accadute nella sua vita. Eventi turpi che vengono sublimati (ma davvero mai affrontati) come parte di una grande vita lungo questo viaggio.
Di tutto questo capitale di aspirazioni spirituali e purificazione personale accumulato lungo la storia poi il film farà davvero molto poco, in un finale appositamente in minore, che dovrebbe rilanciare più che l’importanza dell’esito, la centralità del percorso. Ma quel percorso è di una banalità sconvolgente quanto a ruffiani simbolismi e sfiancanti buonismi. La brava gente britannica incontrata da Harold sono immigrati, ragazzi per bene, persone in difficoltà e uomini e donne di buon cuore che lo vogliono aiutare perché riconoscono in lui una purezza senile contagiosa. Jim Broadbent cavalca quest’ideale senza remore e senza dargli nessuna concretezza, nessuna complessità. Fisso in un sorriso ingenuo e sognante.
Per la cronaca, nella reale Europa del 1974 alla fine Werner Herzog realmente arrivò a Parigi da Monaco a piedi, da solo, d’inverno. E Lotte Eisner di fatto rimase in vita (sarebbe morta molti anni dopo nel 1982). Durante quell’impresa Herzog tenne un diario che poi è diventato il libro Sentieri di ghiaccio, l’opposto logico del buonismo.