L'impero, la recensione

Oggetto alieno ma anche inerte, il film di Dumont mischia senza convincere sperimentalismo demenziale e fantascienza alla Star Wars

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La recensione L'impero, il nuovo film di Bruno Dumont in sala dal 13 giugno.

Prima di parlare di L’impero va fatta una premessa, forse ovvia ma necessaria per non cadere nella disonestà critica: come quasi tutti quelli di Bruno Dumont questo è un film di pura arthouse, che esiste e ha senso nell’ambito di un cinema di assoluta radicalità autoriale. Un film a cui non interessa il grande pubblico, ma di farsi apprezzare da una nicchia cinefila disposta a prenderne sul serio la ricerca stilistica e i riferimenti culturali (dalla teologia a Bresson). Ricordarlo serve a evitare la tentazione di prenderlo e criticarlo come film di fantascienza, cosa che non è se non in senso molto molto vago, anche se la distribuzione un po’ ci ammicca. Collocato il film nel suo campo da gioco possiamo parlare di perché - secondo noi - non funziona.

La trama di L’impero pesca da due filoni della fantascienza. Quello dell’invasione suburbana stile Ultracorpi e quello lucasiano di Star Wars. In una cittadina del nord della Francia si affrontano (come Jedi vs Sith) gli imperi alieni del Bene e del Male. I primi sembrano umani con spade laser. I secondi sono orribili blob nerastri che si infiltrano fra gli umani per far nascere il Margat (=Anticristo), figlio del loro capo supremo. Tutto questo naturalmente non viene raccontato come in un film di Hollywood, ma assorbito nel cinema che Dumont sta facendo da ormai dieci anni: un cinema di astrazione, poco o niente narrativo, che racconta la provincia francese con le armi del grottesco e del demenziale, e con in sottotraccia una riflessione morale di ispirazione cattolica.

Dumont sottopone la fantascienza allo stesso lavoro che le serie P’tit Quinquin e Coincoin et les Z’inhumains (di cui L’impero riprende ambientazione e alcuni personaggi) facevano sulla commedia e sul poliziesco: il genere non è un gioco a cui giocare davvero, ma un universo da deformare in chiave parodistica e da cui prendere in prestito simbologie - Colpevole e Innocente, Normale e Grottesco, e in fondo (perché è lì che si va sempre a parare) Bene e Male. Dumont ruba alla saga di Lucas la dicotomia fra due principi morali assoluti, poi si diverte a calarla nel suo mondo di maschere imperfette e sbagliate, per riflettere sull’incompatibilità della condizione umana (che è una condizione di ambiguità) con gli estremi opposti di Malvagità e Santità.

Purtroppo il gioco che gli era riuscito così bene nel precedente France (2021) stavolta fallisce. Lì tutto quello che aveva da dire sul tema e sulle sue implicazioni per la contemporaneità, Dumont riusciva a dirlo tramite le immagini, la struttura narrativa e la caratterizzazione del personaggio di Léa Seydoux. Qui una volta esaurito il suo senso concettuale, l’immaginario fantascientifico sembra svuotarsi di qualsiasi funzione cinematografica, rimanendo in scena come zavorra che molto raramente strappa un sorriso, più spesso irrita nella sua inutile sovrabbondanza narrativa e scenografica (tanto è chiaro che il racconto non interessa). Non c’è più nemmeno l’escamotage della prospettiva infantile che aiutava a collocare la surrealità delle due serie. L’impero è un film senza chiavi emotive, chiuso nel suo problema intellettuale, e che nonostante lo sfoggio di radicalità non sembra mai in grado di elaborarlo stilisticamente.

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