L'immensità, la recensione

La recensione di L'immensità, film di Emanuele Crialese in concorso a Venezia 79. Con Penélope Cruz, Vincenzo Amato, Luana Giuliani

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La recensione di L’immensità, in concorso al festival di Venezia

Cos’è un film di Emanuele Crialese senza il mare? Da Respiro a Terraferma, infatti, Crialese ha sempre teso al mare come ad uno spazio metaforico che serve sempre per dire altro, specchio e insieme croce di personaggi fortemente attaccati ad una terra, quella siciliana. Con L’immensità mette invece questo specchio da parte, ambientando nella Roma degli anni Settanta un quadro familiare che al contrario rimane fedelissimo alla sua poetica: fatto di giochi di bambini, sguardi duri - quello del suo attore feticcio Vincenzo Amato, ma non solo - e soprattutto di donne tristi, piene di malessere, che con la loro ostinazione disperata ma perlopiù silenziosa cercano amore senza averne mai abbastanza.

In questo senso L’immensità è al contempo la magnifica riconferma dell’urgenza di Crialese di affrontare quei dolori, di far scontrare la dolcezza dell’innocenza di amori puri (non solo quelli infantili, ma anche di adulti che si sentono bambini) con una realtà piena di compromessi e responsabilità. Per quanto suggestivo e ammaliante, tuttavia, L’immensità sembra più che altro porre continuamente le basi di una storia che non vuole partire mai, lasciando tutta quella struggente bellezza sempre in sospeso.

La donna triste e in cerca di amore qui è Penélope Cruz, ovvero Clara, sposata con un benestante uomo siciliano (Vincenzo Amato) con cui vive a Roma in una bellissima casa borghese dove è lei a prendersi cura, tra giochi, canzoni di Raffaella Carrà, Mina e Celentano (la musica in Crialese è sempre essenziale, ma qua per la prima volta è pop e non tradizionale) dei loro tre figli. La vera protagonista è però Adriana (Luana Giuliani), la figlia maggiore. Adriana non si sente giusta nel suo corpo: si sente infatti Andrea, così vuole essere chiamato, e invoca forze superiori (gli alieni, Dio) per far sì che un miracolo possa finalmente trasformarlo in chi si sente veramente. Sarà attraverso il rapporto con la madre, i fratelli, e il primo amore “oltre il canneto” che farà un piccolo passo verso una maggiore consapevolezza non proprio di sé ma più precisamente del suo luogo di provenienza (la sua famiglia).

Anche qui Crialese dà prova che la cosa in cui eccelle è la direzione degli attori. Sono infatti le interpretazioni di tutti gli attori, singolarmente e insieme, a dare la profondità che il film ricerca. L’immensità vive quindi per attimi, singole scene che in sé, e non propriamente nell’insieme, illuminano aspetti particolari dei personaggi. Cruz sembra rubare la scena a tutti, in particolare nei momenti in cui, sempre attraverso l’ironia del gioco, ricorda ad Adriana che può essere ciò che vuole.

In questo caos sentimentale ed identitario in cui la madre vorrebbe essere una bambina e Adriana è senza veri riferimenti, in cerca di un’affermazione di sé dall’esterno (attraverso il nome, gli abiti, le prove di una voce nuova, più profonda e finalmente maschile, con cui cantare) L’immensità regala frammenti di questa ricerca senza però riuscire a renderli veramente discorso. Le sequenze oniriche, in particolare (che già c’erano in Nuovomondo, con il bagno degli immigrati nel latte) dovrebbero servire come metafore liberatorie e invece stridono, sembrano fuori tono.

Con colori sgargianti - così non lo erano mai stati - e una cura estetica millimetrica, la mano di Crialese sembra più rigida che mai. Così rigida da perdere, lungo la strada, o forse in un mare che ora è puro sfondo, quella sua curiosità irrefrenabile di andare sempre oltre ciò che la storia mostra.

Siete d’accordo con la nostra recensione di L'immensità? Scrivetelo nei commenti!

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